sabato 28 giugno 2008

Federalismo a parole, centralismo nei fatti.

Già il mese scorso avevo commentato i primi provvedimenti del Governo tra i quali un posto di primo piano hanno le misure per la riduzione del carico fiscale che ora sono all'esame della Camera dei Deputati per la conversione del Decreto legge 93/08 recante "disposizioni urgenti per salvaguardare il potere di acquisto delle famiglie".
Tra le diverse misure, l'eliminazione dell'ICI sull'abitazione principale è quella che ha l'obiettivo dichiarato di dare un segnale facilmente percepibile nella direzione della riduzione del carico fiscale, anche in considerazione di ciò che è stato dichiarato in campagna elettorale.
Ma è veramente così? Non sembrerebbe:
- il DPEF 2009 - 2013 presentato dal Ministro Tremonti non prevede una riduzione della pressione fiscale;
- la copertura prevista nel decreto legge per l'abolizione dell'ICI mostra che per finanziare le misure sull'ICI sono azzerati i finanziamenti sulla viabilità in Calabria e in Sicilia e sono cancellati i fondi per le metropolitane di Bologna e di Torino e il tramvia di Firenze.
Si crea perciò una "illusione tributaria", perché i contribuenti pagheranno in altre forme (con il taglio a servizi e investimenti previsti o con altre tasse) ciò che viene loro presentato come un regalo, mentre si potevano utilizzare le risorse dell'extragettito determinato dall'incremento delle entrate fiscali operato dal Governo precedente grazie agli interventi sull'evasione fiscale.
La legge finanziaria del 2008 aveva previsto che "...le maggiori entrate sono destinate alla riduzione della pressione fiscale nei confronti dei lavoratori dipendenti". Tutte le forze politiche avevano concordato in campagna elettorale che, di fronte alla difficile congiuntura economica, occorreva dare priorità alla riduzione delle tasse sugli stipendi dei lavoratori dipendenti per aumentare davvero il potere d'acquisto delle famiglie. Con l'abolizione dell'ICI anche sulle case dei ceti con alto reddito si va invece in una direzione diversa.
Dal punto di vista strutturale, sembra confermata l'osservazione di Gilberto Muraro: "L'abolizione dell'Ici è una vittoria dell'apparenza sulla sostanza. Proprio perché l'imposta riguarda l'80 per cento degli italiani, dovrebbe essere chiaro che gli stessi beneficiari dovranno pagare in altre forme quello che è presentato come un regalo. Il minor gettito dei comuni sarà compensato con trasferimenti dal centro. Ma mentre l'Ici si autoregola, un sussidio per definizione genera una domanda unanime di incremento. Tutto fa pensare che nella manovra su imposte nazionali per sostituirne una locale non ci sia alcun guadagno né di efficienza né di equità".
L'abolizione dell'ICI, infatti, comporta una compressione dell'autonomia finanziaria dei Comuni e una centralizzazione del sistema tributario proprio nel momento in cui si dovrebbe avviare il federalismo fiscale ed introdurre un rapporto tra le istituzioni e i cittadini basato sull'autonomia e sulla responsabilità.
La riflessione sull'abolizione dell'ICI potrebbe inserita nella prospettiva dell'attuazione dell'art. 119 della Costituzione, per avviare il federalismo fiscale insieme al processo complessivo di riordino degli assetti istituzionali.
In questa prospettiva è evidente che ogni livello di governo dovrebbe avere un cespite di riferimento (ad esempio, gli immobili per i Comuni, le autovetture per le Province, i consumi per le Regioni) sul quale poter attivare le leve dell'autonomia tributaria per l'esercizio delle funzioni istituzionali in autonomia e responsabilità.
Anche con l'abolizione dell'ICI è molto probabile che, per il futuro, gli immobili resteranno per i Comuni la base di riferimento della loro autonomia tributaria (come avviene nella gran parte degli altri paesi in Europa e nel mondo).
Visto che il Governo ha ormai preso la decisione di abolire l'ICI sulla prima casa, proprio la prospettiva del federalismo fiscale dovrebbe comunque spingere i Comuni a verificare bene la base imponibile residua (seconde case, abitazioni di lusso, altre immobili) anche al fine di operare una ricognizione aggiornata della situazione degli immobili del proprio territorio.
Senza dilungarmi ulteriormente sul tema voglio solo aggiungere in conclusione una citazione di un lucido scritto di Luigi Einaudi del 1959: "Se regioni, provincie, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del denaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo stato, di proventi di cui lo stato ha bisogno per soddisfare ai compiti suoi, o vivono, come accade, addirittura di sussidi, manca l'orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui, dell'emulazione nel chiedere sempre e non essere mai contenti..." (Torino, 'Che cosa rimarrebbe allo Stato?').
E' una citazione ripresa dalla Guida alla Mostra "L’eredità di Luigi Einaudi: la nascita dell’Italia repubblicana e la costruzione dell’Europa”, organizzata a Roma nel Palazzo del Quirinale fino al prossimo 6 luglio, che consiglio a tutti di visitare.

venerdì 27 giugno 2008

Per la società della conoscenza

Ieri sera, 27 giugno, ha preso il via la prima festa del PD di Latina, con un'interessante dibattito, organizzato dall'Associazione Libertà Eguale "Altiero Spinelli", su FLEXICURITY, MERCATO DEL LAVORO E NUOVO STATO SOCIALE.
Il Prof. Paolo Borioni (della Fondazione Gramsci) e il Sen. Tiziano Treu, partendo dall'esperienza dei paesi scandinavi, hanno evidenziato la necessità di predisporre anche in Italia, come in tutta Europa, strumenti di politiche attive del lavoro che consentano di tenere insieme la prospettiva dell'apertura delle nostre economie, la capacità di investimento e di innovazione, la tutela dinamica dei lavoratori (piuttosto che dei posti di lavoro), con un forte investimento sulla formazione e sulla conoscenza.
Alle spinte alla chiusura e alla difesa degli assetti corporativi, alle paure che si diffondono nel continente, è possibile contrapporre la prospettiva di un'economia e di una società aperta, capace di favorire le strategie di innovazione produttiva che sfruttino al meglio le risorse, i talenti, la creatività di cui è ricca l'Italia e l'Europa.
Perché ciò sia possibile occorre tuttavia porre al centro della politica il binomio "lavoro - conoscenza", riorganizzare l'esperienza di vita e di lavoro e i processi produttivi, prevedendo percorsi di formazione continua che permettano di coniugare la flessibilità e la sicurezza sia nell'accesso al lavoro, sia nella pienezza della vita lavorativa, sia nell'uscita dal lavoro, in modo da favorire la crescita dell'occupazione anche in termini qualitativi e la costruzione di un ponte di solidarietà intergenerazionale.
Gli investimenti su ricerca, innovazione, istruzione, formazione professionale, politiche attive del lavoro diventano allora la misura di quanto si pensa al futuro del Paese.
Il Partito Democratico su questi punti ha già abbozzato, grazie a Damiano e Treu, una strategia di riforma e di azione. Essa può diventare un punto di riferimento per le proposte da presentare in Parlamento anche rispetto alla manovra finanziaria appena approvata dal Governo.
Ma l'investimento sulla "società della conoscenza" è una strategia che da far vivere anche nel territorio.
In vista delle elezioni provinciali del prossimo anno a Latina si dovrà costruire una proposta innovativa in quelle materie (scuola, formazione, servizi e politiche per il lavoro) che sono di competenza della Provincia e su cui si costruiscono le prospettive di vita e di lavoro dei giovani.
Al di là delle proposte politiche ed amministrative è però possibile costruire un patto fra tutti i lavoratori della conoscenza (i docenti, i ricercatori, i lavoratori intellettuali) per sviluppare un movimento di solidarietà che anticipi nella società le politiche di investimento sull'innovazione e sulla conoscenza che si vogliono proporre nei diversi livelli di governo, attraverso l'apertura delle scuole e dei loro laboratori al territorio e lo sviluppo di corsi di formazione e di esperienze diffuse di "apprendistato sociale", che superino gli attuali limiti della formazione professionale e continua.
Lo Stato sociale, nella storia del secolo scorso, non è piovuto dal cielo ma è stato frutto di lotte e percorsi di solidarietà di cui sono stati protagonisti soprattutto il movimento socialista e il movimento popolare.
Allo stesso modo, il "movimento democratico" (non solo il PD, ma l'insieme delle forze che convergano sulla priorità di questa strategia) può divenire il motore di un diffuso investimento sociale per "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", per affermare la "Società della conoscenza" e dare finalmente corpo al carattere originale della nostra Costituzione repubblicana che qualifica l'Italia come una "repubblica democratica, fondata sul lavoro".

lunedì 16 giugno 2008

Il coraggio di investire sul futuro dell'Europa.

La vittoria del no al referendum del 12 giugno in Irlanda sul Trattato di Lisbona riapre il dibattito sul futuro dell'Unione europea.
I Governi dei diversi paesi membri, dopo la pausa di riflessione dovuta al rigetto del Trattato sulla costituzione europea da parte dei cittadini francesi ed olandesi, avevano sperato che si potesse ratificare il Trattato di Lisbona entro la fine del 2008, prima delle prossime elezioni del Parlamento europeo, attraverso una ratifica parlamentare da parte dei diversi Paesi membri, poiché il nuovo Trattato non si pone l'obiettivo di approvare una “Costituzione” europea.
A questo percorso solo l'Irlanda ha opposto la necessità del ricorso al referendum popolare, poiché la sua Costituzione lo richiedeva.
Nonostante che la gran parte delle classi dirigenti irlandesi (delle forze politiche e delle rappresentanze sociali) sostenesse l'approvazione del Trattato, le forze contrarie sono riuscite a prevalere, facendo leva sulle paure suscitate dalla crisi economica e sui rischi di un'invadenza della burocrazia europea e della perdita dell'identità nazionale.
Si sono opposti al Trattato il Partito cattolico nazionalista dell'Irlanda del Nord il (Sinn Fein), alcune frange minoritarie di estrema destra ed estrema sinistra e un ricco uomo d'affari (Ganley) che ha investito molte risorse nei mass media per il no al referendum. Tuttavia, più in profondità, hanno influito sul risultato anche le posizioni di molti settori dell'establishment degli USA, della Chiesa cattolica, dei circoli ultra-liberisti che si oppongono all'idea di un'Europa politicamente unita, che riafferma la tradizione dell'illuminismo e il modello dell'economia sociale di mercato.
Di fronte al rifiuto irlandese, occorre innanzitutto evitare che gli altri paesi europei perdano la testa e proseguire il percorso di ratifica parlamentare negli 8 paesi che mancano (tra cui l'Italia, l'Inghilterra e la Spagna) per arrivare entro la fine dell'anno alla ratifica del Trattato di Lisbona almeno da parte dei 4/5 degli Stati membri. E' la strada prevista dall'art. 48 del Trattato, che le istituzioni europee e i Paesi più importanti dell'Europa (la Germania, la Francia, la Spagna e, fino ad ora, anche la reticente Inghilterra) stanno indicando. E' la strada che dovrebbe essere seguita rapidamente anche dall'Italia, superando i ricatti che la Lega può porre al Governo e al Parlamento, attraverso un lavoro comune delle forze di maggioranza e di opposizione.
La ratifica del Trattato di Lisbona da parte di una larga parte degli Stati membri consentirebbe ad essi di insistere sul processo di unificazione, evitando di incagliarsi sui veti posti da alcuni Stati contro gli impegni sottoscritti. Si darebbe vita in questo modo ad un progetto comunque aperto all’adesione dei diversi Stati e popoli che compongono l'Unione europea, nei tempi e con gli adattamenti che si ritengano necessari.
Questa complessa strategia è sicuramente una costruzione ardita dal punto di vista giuridico, ma non risolve il problema del distacco profondo che negli ultimi anni si è aperto tra i cittadini e le istituzioni europee.
Dopo la fase di unificazione europea del dopoguerra che è servita a superare il conflitto storico franco-tedesco, dopo la fase dell'unificazione funzionale delle frontiere e della moneta seguita alla fine dell'Unione sovietica, occorre aprire una riflessione profonda sull'identità politica dell'Europa.
Da un lato, i cittadini europei sentono sempre più di far parte di un'unica entità sovranazionale, che consente di affrontare insieme le sfide della globalizzazione e dei cambiamenti dell'economia mondiale. Dall'altro, non riescono ancora a capire bene cosa è l'Europa: sanno che non è uno Stato, che non è una Confederazione di stati, ma hanno molti dubbi su un potere dai confini non ben definiti e di cui non è ben chiara la legittimazione democratica.
Per questi motivi è indispensabile che, accanto al completamento del processo di ratifica del Trattato di Lisbona, si apra immediatamente un dibattito per rilanciare la prospettiva politica e democratica di un'Europa federale, nella quale sia esplicitata la doppia legittimazione dell'Unione europea: quella degli Stati membri e quella dei popoli europei.
Le elezioni del Parlamento europeo del 2009, in questa prospettiva, rappresentano un'occasione da non perdere. Occorre fare in modo che, in vista di questa scadenza, ci sia un dibattito politico che consenta la formazione di forze politiche continentali che abbiano veramente un progetto comune, innanzitutto sulla futura identità istituzionale dell'Unione europea. Anche la stessa discussione sulla collocazione internazionale del PD dovrebbe focalizzarsi su questo obiettivo,per consentire di costruire una vasta alleanza di forze progressiste e democratiche favorevoli all'unificazione politica dell'Europa.
Se, come è ipotizzabile, entro il 2008 oltre i 4/5 dei Paesi membri avranno ratificato il Trattato di Lisbona, tutti le forze europeiste (e, soprattutto, i federalisti convinti) dovrebbero proporre di affiancare alle elezioni del Parlamento un referendum consultivo europeo sul nuovo Trattato.
Questa scelta consentirebbe di rafforzare il fondamento democratico del processo di costruzione dell'Unione europea e, allo stesso tempo, permetterebbe anche agli Stati più recalcitranti di verificare la volontà dei loro popoli, non in un contesto nazionale strumentalizzato, ma in un dibattito pubblico continentale.
E' evidente che questa scelta comporta il rischio di un voto negativo da parte dei cittadini europei: ma non è pensabile di dar vita ad una costruzione così ardita come l'unificazione politica europea se non si ha il coraggio di rischiare.
Su questa scelta si potrà pertanto verificare se, nelle forze politiche e nella società civile, potrà finalmemte emergere una classe dirigente che, consapevole delle sfide che insieme dobbiamo affrontare nel mondo, sia capace di proporre un progetto chiaro, credibile e duraturo ai singoli cittadini e alle nazioni che compongono l'Unione europea.

venerdì 13 giugno 2008

Le paure dell'Occidente e la cultura dell'emergenza

Le paure dell'Occidente sono state uno dei punti centrali dell'intervento del Sen. Enrico Morando nell'incontro organizzato dall'Associazione "A. Spinelli".
E' stato affermato che il bisogno di sicurezza dei cittadini (rispetto alla globalizzazione, all'immigrazione, alla precarietà, ...) abbia rappresentato una delle cause primarie della vittoria elettorale del centrodestra, poiché il Governo Prodi e lo stesso Partito Democratico non hanno saputo dare risposte ad esso. In questo senso, la scelta di approvare l'indulto ha rappresentato uno dei punti fondamentali di crisi del rapporto tra il centrosinistra e il Paese.
Io ritengo che il Partito Democratico debba mettere al centro della sua riflessione il bisogno di sicurezza dei cittadini, nelle diverse dimensioni in cui si manifesta, soprattutto per rispondere alle domande delle fasce più deboli della popolazione.
Tuttavia, se il PD vuole dare risposte avanzate a questo bisogno deve evitare di copiare le ricette della destra e uscire dalla cultura dell'emergenza che sta caratterizzando le scelte del legislatore italiano. L'indulto (non solo quello votato in Parlamento, ma quello quotidiano di un apparato giudiziario che non dà certezza di pena ai reati commessi) è l'altra faccia di scelte legislative che inaspriscono le sanzioni penali come risposta di immagine alle paure spesso ingigantite dai mass media.
La legislazione di emergenza non può dare risposte ai bisogni di sicurezza, ma al contrario alimenta le paure dei cittadini.
La risposta dei riformisti, invece, è il recupero della nobile tradizione di Cesare Beccaria sulla certezza "dei delitti e delle pene".
Non abbiamo bisogno di altre sanzioni penali, ma di allegerire l'intervento del diritto penale sull'ordinamento per far funzionare altri tipi di sanzione (sanzioni amministrative, indennizzi, risarcimenti....). Abbiamo bisogno di sanzioni certe e di un'amministrazione che possa effettivamente farle valere, sia nei confronti dei deboli (fessi) che dei forti (furbi), sia nei confronti della piccola criminalità che della grande criminalità.
In questa prospettiva, la parola d'ordine del PD su questi temi deve essere quella di collegare strettamente la sicurezza e la legalità, per combattere le tante piccole e grandi impunità quotidiane e garantire a tutti la libertà di vivere in Paese sicuro ed accogliente.

giovedì 5 giugno 2008

Il nodo Europa

Nel Consiglio dei ministri dello scorso 30 maggio la maggioranza che sostiene il Governo Berlusconi ha cominciato a mostrare le prime crepe su una questione centrale per il futuro del nostro Paese e dell'Europa: la ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007.
Il "Trattato di Lisbona" è stato redatto per sostituire la Costituzione europea bocciata dai referendum francese e olandese del 2005, sulla base del'intesa arrivata a Berlino nel 2007, in occasione dei 50 anni dell'Europa unita, per rilanciare il processo unitario europeo.
L'Italia, innanzitutto, deve onorare gli impegni presi in sede europea per pervenire entro la fine di quest'anno alla ratifica del Trattato, per riuscire a farlo entrare in vigore il 1° gennaio 2009, prima delle elezioni europee. E' perciò necessario che il Parlamento italiano approvi la legge di ratifica entro l'estate, attraverso un lavoro comune della maggioranza e dell'opposizione che permetta di rappresentare unitariamente la volontà del Paese in ambito europeo.
Contro questo impegno unitario, la Lega Nord ha assunto nel Consiglio dei ministri una posizione differente che mira a sottoporre, anche in Italia come in Irlanda, la ratifica del Trattato ad un referendun popolare. A questa posizione si sono associate anche alcuni esponenti della sinistra comunista ed extraparlamentare. La richiesta del referendum in un solo paese, al di là della demagogia, cerca di utilizzare le paure diffuse dei cittadini rispetto ai processi di globalizzazione per conservare gli assetti attuali degli Stati nazionali ed impedire la ratifica del nuovo Trattato europeo.
Il Partito democratico, coerentemente con le posizioni assunte nella precedente legislatura e dai suoi più importanti esponenti in sede europea, ha innanzitutto il compito di incalzare il Governo e la maggioranza parlamentare per giungere ad una rapida ratifica del Trattato, che sia il frutto di una larga convergenza di tutte le forze sinceramente europeiste.
Allo stesso tempo, su questo tema, può aprire un confronto ulteriore nel Parlamento, in Italia e in Europa, per sollecitare l'approvazione a livello europeo di una normativa elettorale unica per le prossime elezioni del 2009, che superi l'attuale babele di sistemi di elezione e permetta di dare una legittimanzione unitaria al Parlamento europeo. In questa prospettiva di unificazione politica si può proporre anche l'indizione di un referendum consultivo sul trattato di Lisbona, da tenersi insieme alle elezioni del Parlamento europeo in tutti i paesi membri, per mettere al centro del dibattito politico continentale del prossimo anno il tema dell'unificazione politica dell'Europa come vera risposta alle sfide della globalizzazione.