martedì 27 novembre 2012

Bersani Presidente


Le primarie dei progressisti e dei democratici di domenica scorsa mandano al Paese segnali chiari:
  1. una volontà diffusa di partecipazione (oltre 3 milioni e centomila votanti);
  2. una richiesta forte di innovazione nella vita dei partiti;
  3. il desiderio di unità del popolo del centrosinistra;
  4. la volontà di costruire una proposta credibile per il governo del Paese.

La scelta del candidato del centrosinistra è ora affidata al ballottaggio di domenica prossima tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi.

Da una prima analisi dei risultati  Bersani è in vantaggio su Renzi di oltre 9 punti percentuali, ma soprattutto è in vantaggio in gran parte del Paese: 17 regioni su 20, 9 Città metropolitane su 10, 82 province su 100.

Renzi ha certamente saputo interpretare al meglio la volontà di partecipazione e di innovazione del popolo di centrosinistra, portando il sale della competizione nel confronto delle primarie, ma il suo progetto rischia di cristallizzare il contrasto insanabile tra i partiti e la società civile e dividere il centrosinistra per inseguire ancora un'astratta vocazione maggioritaria del PD.

Bersani si è dimostrato capace di tenere unito il PD, mantenendo la sfida dell'innovazione e dell'apertura alla partecipazione democratica diffusa, cercando di superare le distanze tra il partito e la società. Ma egli ha anche creduto fortemente nella costruzione di una coalizione dei progressisti e dei democratici e in un'alleanza di governo tra i progressisti e i moderati fortemente ancorata al rilancio di un progetto unitario per l'Europa.

Per questo Bersani rappresenta oggi il punto di sintesi migliore per tenere insieme le esigenze di partecipazione, innovazione, unità che si sono espresse nelle primarie e per offrire una proposta credibile, condivisa e sostenuta da tutto il centrosinistra, per il governo del Paese.

In vista del ballottaggio di domenica prossima voglio per questo ribadire il mio convincimento: Bersani Presidente è la scelta migliore per il centrosinistra, per l'Italia e per l'Europa.

sabato 10 novembre 2012

Elezioni 2013: Italia Bene Comune

Dal 4 novembre sono aperte le iscrizioni per partecipare alle primarie dei progressisti e dei democratici, che si terranno il prossimo 25 novembre e il 2 dicembre, attraverso il sito Italia Bene Comune.

Le primarie consentono agli elettori di centrosinistra di partecipare all'elaborazione di un progetto comune da condividere, sulla base di quanto già scritto nella Carta d'Intenti, e di scegliere democraticamente chi sarà il nostro candidato alla Presidenza del Consiglio in vista delle elezioni politiche del prossimo anno.

I cinque candidati in campo hanno tutti le qualità per arricchire il confronto nel centrosinistra, ma la scelta degli elettori delle primarie probabilmente si canalizzerà sui tre protagonisti principali: Bersani, Renzi e Vendola.

Renzi è troppo di centro e ci fa perdere il voto della sinistra e dei progressisti. Vendola è troppo di sinistra e ci fa perdere il voto dei moderati. Bersani, invece, può unire tutto il centrosinistra con una proposta di governo credibile ed aperta al contributo di chi vuole bene all'Italia e all'Europa. In estrema sintesi, io la penso così, e da quanto sento in giro ce ne sono molti che la pensano come me, perché la domanda di unità nel popolo di centrosinistra è forte.

In questi mesi Bersani  si è dimostrato capace di tenere unito il PD, sostenere responsabilmente il Governo Monti, ma anche di unire il centrosinistra intorno ad una proposta credibile e condivisa sia dai democratici che dai progressisti, che va oltre il PD senza costruire un'armata Brancaleone.  Per una prospettiva di una società aperta ed inclusiva abbiamo bisogno di un candidato che abbia innanzitutto orecchie capaci di raccogliere i bisogni profondi della società per trasformarli in una proposta condivisa, ma che abbia anche la capacità di parlare a tutto il Paese.

Spero che, fin dal 25 novembre, Pierluigi Bersani sarà eletto nostro candidato nelle elezioni primarie, per offrire al Paese una proposta unitaria in grado di vincere le elezioni del 2013, quale che sia la legge elettorale, e formare un Governo aperto anche al contributo dei moderati e di quanti vogliono ricostruire l'Italia nella prospettiva dell'unificazione politica dell'Europa.



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venerdì 21 settembre 2012

Considerazioni istituzionali ed economiche sulla Carta d'intenti del PD

La Carta d’intenti del PD offre una visione di ricostruzione e cambiamento del Paese che mette al centro dell'attenzione l'Italia come bene comune.

Essa offre un quadro di riferimento chiaro sulle priorità che il centrosinistra al Governo dovrà affrontare nella prossima legislatura: 
  1. guidare l’economia fuori dalla crisi;
  2. ridare autorità efficienza e prestigio alle istituzioni e alla politica ripartendo dai principi della Costituzione;
  3. rilanciare l’unità e l’integrazione politica dell’Europa.

In questa precisa elencazione delle priorità traspare la consapevolezza dello stretto legame che corre tra gli assetti istituzionali e la possibilità di rilancio economico del Paese.

Quest’estate ho avuto occasione di leggere un bel libro di due giovani economisti americani (Acemoglu - Robinson: "Why nations fail") in cui chiaramente si afferma che la ricchezza delle nazioni dipende dalla bontà degli assetti istituzionali: condivisione di valori, certezza del diritto e unificazione delle regole, contendibilità delle istituzioni, incentivi allo sviluppo. La crescita delle nazioni dipende pertanto in gran parte dal buon funzionamento e dalla certezza dei loro assetti istituzionali.

Le manovre finanziare e le disposizioni ordinamentali introdotte nella decretazione d’urgenza di questi ultimi anni seguono esattamente la direzione opposta: mancando una visione condivisa sugli assetti istituzionali e sullo sviluppo del Paese si fanno scelte discrezionali che portano al declino e al fallimento sia il sistema istituzionale che il sistema economico.

Oggi, i limiti del modello istituzionale costruito dopo Tangentopoli sono ormai visibili a tutti. Non si è creato un nuovo sistema politico solido sulle ceneri dei partiti della prima Repubblica. Le istituzioni repubblicane sono dentro una confusa transizione di cui non si vede ancora uno sbocco coerente. Il Paese non ha sfruttato i margini di manovra consentiti dall'Euro per costruire un sistema produttivo più aperto alle sfide dell'innovazione ed è ripiegato su se stesso con tassi di produttività e di crescita lontani non solo dalla Cina ma anche dalla media dei Paesi UE.

La seconda Repubblica ha i suoi presupposti nella crisi dei partiti politici della prima Repubblica, che ha spinto il Parlamento ad approvare riforme dei sistemi elettorali dei diversi livelli di governo territoriali nelle quali veniva introdotta nella sostanza una forma di governo presidenziale, esaltando la centralità delle istituzioni rispetto alla centralità dei partiti. Questo è avvenuto prima con l'elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia e poi con l'elezione diretta dei Presidenti delle Regioni, i cd. Governatori.

L'elezione diretta dei vertici monocratici delle istituzioni territoriali, costruita su modelli elettorali molto diversificati, ha portato a svuotare nella sostanza la funzione di mediazione dei partiti politici che si esprimeva tradizionalmente nelle assemblee consiliari, per dar spazio a logiche di cooptazione politica tra partiti e vertici istituzionali, che hanno portato ad ingrossare sensibilmente le fila delle persone che vivono di politica perché "nominate" come assessori, come dirigenti scelti fiduciariamente dai politici, come rappresentanti nei tanti enti di secondo grado.

Parallelamente alla scelta presidenziale si è avviata l'evoluzione in senso federale della forma di stato repubblicana che ha trovato un suo primo coronamento nella riforma costituzionale del 2001 in cui Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sono tutti considerati elementi costitutivi della Repubblica. La scelta non è stata portata fino in fondo perché non si è riformato il sistema parlamentare con l'istituzione di un Senato federale rappresentativo dei territori. E' evidente che, senza questa riforma, non può esistere un sistema federale.

Negli ultimi 10 anni, le maggioranze di centrodestra guidate da Berlusconi e Bossi hanno cercato di forzare l'evoluzione dell'ordinamento italiano verso un modello presidenziale e federale, con proposte di riforma costituzionale che però sono state bocciate dai cittadini nel referendum costituzionale del 2006. Visto il fallimento di questa riforma costituzionale esse hanno dato priorità,  in questa legislatura, ad una parziale attuazione della riforma del titolo V della Costituzione, attraverso la legge delega sul federalismo fiscale.

Il Governo Monti, di fronte alle emergenze dei conti pubblici, ha messo al centro il tema della tenuta della finanza pubblica rispetto agli assetti costituzionali. Nei suoi primi mesi di azione Monti non ha affrontato direttamente il tema delle riforme istituzionali, ma con diverse scelte ha fatto capire che la prospettiva istituzionale era cambiata.

Da un lato, ha nella sostanza svuotato il processo di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale (legge 42/09). Dall'altro, ha operato una ferita insanabile all'attuazione della riforma costituzionale del 2001, attraverso lo svuotamento delle Province in attesa della loro completa abolizione dalla Costituzione e la previsione di un sistema di elezione indiretto (di secondo grado) degli organi di governo provinciali. Da ultimo, ha spostato l'attenzione dal federalismo di casa nostra alla prospettiva della costruzione di un sistema federale di governo a livello europeo.

Con i decreti legge successivi, ed in particolare con quello sulla spending review, c'è stato un parziale cambio di rotta. Accanto allo svuotamento delle istituzioni territoriali a partire dalle loro finanze, il Governo ha iniziato ad abbozzare un disegno di riordino delle istituzioni territoriali attraverso la previsione di norme cogenti sulle unioni di comuni, sul riordino delle istituzioni provinciali e sull’istituzione delle città metropolitane, in attuazione dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione dell’art. 118 della Costituzione.

Questo disegno è molto ambizioso perché mette mano per la prima volta in modo organico all’organizzazione della pubblica amministrazione nel territorio, riordinando non solo le istituzioni territoriali ma anche gli uffici periferici dello Stato.

Sta ora alle istituzioni territoriali cogliere la sfida aperta dal Governo e mettere in atto da subito nei territori i percorsi di svolgimento associato delle funzioni comunali (attraverso le unioni di comuni, le unioni speciali o le convenzioni), di riordino delle istituzioni provinciali (tramite i CAL e le proposte regionali) e di istituzione delle Città metropolitane (attraverso le conferenze metropolitane previste dalla legge). E’ un’occasione per ridisegnare dal basso tutta l’amministrazione territoriale per renderla più forte ed adeguata allo svolgimento dei compiti previsti dalla Costituzione.

Le forze del centrosinistra, progressiste e moderate, che hanno a cuore la Costituzione repubblicana e l'unificazione politica dell'Europa, devono evitare nella prossima legislatura ulteriori strappi istituzionali e portare a compimento il processo di riordino delle istituzioni pubbliche che è stato avviato, ridando centralità ed efficienza ad un Parlamento profondamente riformato e mettendo fine alla stagione del presidenzialismo plebiscitario e all'abuso della decretazione d'urgenza, che non ha portato grandi risultati.

Il riordino delle istituzioni territoriali, un quadro normativo più stabile e coerente con la Costituzione vigente, insieme alla revisione delle norme più “stupide” del patto di stabilità interno, consentirebbe ai Comuni e alle Province di dare un contributo significativo alla ripresa della crescita, già dal prossimo anno, con un rilancio diffuso degli investimenti nei territori.

Questo processo dovrebbe essere accompagnato dalla definizione in sede europea di strumenti che, nel rispetto degli accordi sanciti sul rispetto dei vincoli del patto di stabilità, possano avviare una politica comune espansiva che compensi i vincoli sul pareggio di bilancio che oggi limitano l’azione degli Stati membri.

Scelte di questo tipo non hanno bisogno di riforme costituzionali. Possono essere avviate se c’è una chiara maggioranza politica alla guida del Paese che sappia tradurle in scelte legislative e di governo e che, in sede europea, sia in grado di costruire un’alleanza per l’uscita dalle politiche di austerità e il rilancio della crescita.

Un discorso diverso deve essere invece fatto per avviare riforme costituzionali più profonde che devono necessariamente coinvolgere l’insieme delle forze politiche, sia a livello nazionale, sia a livello europeo.

Le elezioni europee del 2014 possono essere l’occasione per rilanciare la prospettiva dell’unione politica degli “Stati Uniti di Europa” attraverso l’elezione di un’assemblea costituente che sposti la discussione sul federalismo dagli Stati membri all'Europa.

La nuova legislatura, in Italia, soprattutto se nascerà da una legge elettorale che esce dalla logica plebiscitaria, può essere l’occasione per definire in Parlamento una visione condivisa tra le forze politiche sulla forma di governo e sulla forma di stato, che superi i limiti della lunga transizione istituzionale che ha caratterizzato la seconda Repubblica, che riassumerei nella formula: “il federalismo e il presidenzialismo de noantri”.

mercoledì 8 agosto 2012

Oltre "il presidenzialismo e il federalismo de noantri"


Ormai è chiaro a tutti che la nascita del Governo Monti è stata voluta dal Presidente della Repubblica e dai princiali partiti politici non solo per ripristinare la credibilità del Paese nei confronti dei governi europei e dei mercati, ma anche per garantire una fase di transizione che consentisse di superare la sterile conflittualità politica che in Italia si è costruita dopo Tangentopoli attraverso uno sgangherato bipolarismo plebiscitario.

Le forze politiche che sostengono Monti devono assecondare il percorso di riforme che il Governo ha predisposto in attuazione di impegni internazionali assunti dal Paese, peraltro molto difficili da digerire, ma hanno anche il compito di proporre una possibile via di uscita che consenta di aprire una nuova fase politica nella prossima legislatura, superando i limiti di questi anni.

Questa sfida si misurerà soprattutto dalla capacità di approvare in tempi brevi una riforma elettorale che restituisca ai cittadini il diritto di sciegliere i loro rappresentanti in Parlamento e consenta alle diverse forze politiche di candidarsi alla guida del Paese con proposte politiche credibili e sostenibili dal punto di vista governativo e parlamentare.

In un passaggio così difficile, il compito della sinistra è costruire una proposta di governo inclusiva e aperta al contributo dei moderati che consenta di superare le scorciatoie populiste e tecnocratiche e di mettere in sicurezza le istituzioni italiane nell'ambito del percorso di costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Su queste discriminanti si può costruire una solida alleanza tra progressisti e moderati per la prossima legislatura che consenta all'Italia di uscire dal guado, rilanciare l'economia, riformare se stessa in coerenza con i principi costituzionali, essere protagonista del processo di costruzione dell'Europa unita.

I limiti del modello istituzionale costruito dopo Tangentopoli sono ormai visibili a tutti. Non si è creato un nuovo sistema politico solido sulle ceneri dei partiti della prima Repubblica. Le istituzioni repubblicane sono dentro una confusa transizione di cui non si vede ancora uno sbocco coerente. Il Paese non ha sfruttato i margini di manovra consentiti dall'Euro per costruire un sistema produttivo più aperto alle sfide dell'innovazione ed è ripiegato su se stesso con tassi di produttività e di crescita lontani non solo dalla Cina ma anche dalla media dei Paesi UE.

Dal punto di vista politico ed istituzionale la scelta compiuta a partire dal '93 è stata quella di puntare ad un'evoluzione della forma di governo verso il modello presidenziale e ad un'evoluzione della forma di stato verso il modello federale.

Questo scelta era in contrasto non solo con il nostro assetto costituzionale, ma anche con il nostro assetto politico. In mancanza di una profonda riforma della Costituzione, invece di seguire esempi di altre esperienze consolidate, si è costruita una proposta politica così riassumibile: "il federalismo e il presidenzialismo de noantri".

Questa scelta ha i suoi presupposti nella crisi dei partiti politici della prima Repubblica, che ha spinto il Parlamento ad approvare riforme dei sistemi elettorali dei diversi livelli di governo territoriali nelle quali veniva introdotta nella sostanza una forma di governo presidenziale, esaltando la centralità delle istituzioni rispetto alla centralità dei partiti. Questo è avvenuto prima con l'elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia e poi con l'elezione diretta dei Presisenti delle Regioni, i cd. Governatori.

L'elezione diretta dei vertici monocratici delle istituzioni territoriali, costruita su modelli elettorali molto diversificati, ha portato a svuotare nella sostanza la funzione di mediazione dei partiti politici che si esprimeva tradizionalmente nelle assemblee consiliari, per dar spazio a logiche di cooptazione politica tra partiti e vertici istituzionali, che hanno portato ad ingrossare sensibilmente le fila delle persone che vivono di politica perché "nominate" come assessori, come dirigenti scelti fiduciariamente dai politici, come rappresentanti nei tanti enti di secondo grado.

Parallelamente alla scelta presidenziale si è avviata l'evoluzione in senso federale della forma di stato repubblicana che ha trovato un suo primo coronamento nella riforma costituzionale del 2001 in cui Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sono tutti considerati elementi costitutivi della Repubblica. La scelta non è stata portata fino in fondo perché non si è riformato il sistema parlamentare con l'istituzione di un Senato federale rappresentativo dei territori. E' evidente che, senza questa riforma, non può esistere un sistema federale.

Negli ultimi 10 anni, soprattutto sotto la spinta delle maggioranze di centrodestra (guidate da Berlusconi e Bossi) si è cercato di portare a compimento l'evoluzione dell'ordinamento italiano verso un modello presidenziale e federale, con proposte di riforma costituzionale che però non sono arrivate a compimento, anche a causa della volontà popolare di opporsi ad esse nel referendum costituzionale del 2006.

Il Governo Monti non ha affrontato direttamente il tema delle riforme istituzionali ma con diverse scelte ha fatto capire che la prospettiva istituzionale era cambiata. Da un lato, ha nella sostanza svuotato il processo di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale (legge 42/09). Dall'altro, ha operato una ferita insanabile all'attuazione della riforma costituzionale del 2001, attraverso lo svuotamento delle Province in attesa della loro completa abolizione dalla Costituzione e la previsione di un sistema di elezione indiretto (di secondo grado) degli organi di governo provinciali. Da ultimo, ha spostato l'attenzione dal federalismo di casa nostra alla prospettiva della costruzione di un sistema federale di governo a livello europeo.

Le scelte del Governo Monti in campo istituzionale non sono tutte condivisibili. Nascono da una stagione di emergenza che ha portato oggettivamente ad un abuso dei decreti legge nella materia istituzionale. Ma pongono alle forze politiche la sfida di una riflessione a 360 gradi sui futuri assetti istituzionali, sui modelli di legittimazione elettorale previsti nel nostro ordinamento, sulla forma di governo e sulla forma di stato.

Le forze del centrosinistra, progressiste e moderate, che hanno a cuore la Costituzione repubblicana e l'unificazione politica dell'Europa, possono articolare una nuova proposta istituzionale coerente su questi temi.
  1. Centralità della Costituzione e rilancio della forma di governo parlamentare in essa prevista, mettendo fine alla stagione del presidenzialismo plebiscitario e all'abuso della decretazione d'urgenza, che non ha portato grandi risultati, ridando centralità ed efficienza ad un Parlamento profondamente riformato.
  2. Rafforzamento del governo unitario europeo (a livello di bilancio, bancario, fiscale e politico) nella prospettiva di realizzare gli Stati Uniti di Europa, spostando la discussione sul federalismo dall'Italia all'Europa e rilanciando la nostra forma di stato autonomista e regionale, che prevede il rispetto e la valorizzazione delle autonomie territoriali.
  3. Previsione di sistemi elettorali per i diversi livelli di governo che siano coerenti con il nostro modello costituzionale in una prospettiva unitaria che miri a ricostruire un sistema politico autorevole e nel quale i partiti svolgano pienamente il ruolo previsto dalla Costituzione.
In questa prospettiva, anche nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà, si può prevedere il mantenimento di un sistema di elezione diretta dei sindaci, viste le funzioni di governo di prossimità che i Comuni sempre più dovranno svolgere.

Per le elezioni degli organi di governo delle Province e Città metropolitane, in considerazione delle funzioni di compensazione territoriale che esse svolgono come enti con funzioni amministrative di area vasta, è preferibile optare per un sistema di elezione diretta dei soli consigli ed affidare ad essi il compito di eleggere i Presidenti di Provincia e i Sindaci metropolitani. Questa scelta rispetta i principi della carta europea delle autonomie locali e non presenta i rischi di opacità e di carenza di autorevolezza tipici delle elezioni di secondo grado.

Per le Regioni e lo Stato, in considerazione delle loro preminenti funzioni legislative e di regolazione, occorre restituire centralità e autorevolezza alle assemblee elettive, come avviene nella maggior parte dei paesi europei, e affidare a questi consessi democratici il compito di eleggere i vertici istituzionali e gli esecutivi, superando la personalizzazione della politica e ricostruendo un solido circuito di fiducia nel sistema dei partiti e nel modello parlamentare.