venerdì 21 settembre 2012

Considerazioni istituzionali ed economiche sulla Carta d'intenti del PD

La Carta d’intenti del PD offre una visione di ricostruzione e cambiamento del Paese che mette al centro dell'attenzione l'Italia come bene comune.

Essa offre un quadro di riferimento chiaro sulle priorità che il centrosinistra al Governo dovrà affrontare nella prossima legislatura: 
  1. guidare l’economia fuori dalla crisi;
  2. ridare autorità efficienza e prestigio alle istituzioni e alla politica ripartendo dai principi della Costituzione;
  3. rilanciare l’unità e l’integrazione politica dell’Europa.

In questa precisa elencazione delle priorità traspare la consapevolezza dello stretto legame che corre tra gli assetti istituzionali e la possibilità di rilancio economico del Paese.

Quest’estate ho avuto occasione di leggere un bel libro di due giovani economisti americani (Acemoglu - Robinson: "Why nations fail") in cui chiaramente si afferma che la ricchezza delle nazioni dipende dalla bontà degli assetti istituzionali: condivisione di valori, certezza del diritto e unificazione delle regole, contendibilità delle istituzioni, incentivi allo sviluppo. La crescita delle nazioni dipende pertanto in gran parte dal buon funzionamento e dalla certezza dei loro assetti istituzionali.

Le manovre finanziare e le disposizioni ordinamentali introdotte nella decretazione d’urgenza di questi ultimi anni seguono esattamente la direzione opposta: mancando una visione condivisa sugli assetti istituzionali e sullo sviluppo del Paese si fanno scelte discrezionali che portano al declino e al fallimento sia il sistema istituzionale che il sistema economico.

Oggi, i limiti del modello istituzionale costruito dopo Tangentopoli sono ormai visibili a tutti. Non si è creato un nuovo sistema politico solido sulle ceneri dei partiti della prima Repubblica. Le istituzioni repubblicane sono dentro una confusa transizione di cui non si vede ancora uno sbocco coerente. Il Paese non ha sfruttato i margini di manovra consentiti dall'Euro per costruire un sistema produttivo più aperto alle sfide dell'innovazione ed è ripiegato su se stesso con tassi di produttività e di crescita lontani non solo dalla Cina ma anche dalla media dei Paesi UE.

La seconda Repubblica ha i suoi presupposti nella crisi dei partiti politici della prima Repubblica, che ha spinto il Parlamento ad approvare riforme dei sistemi elettorali dei diversi livelli di governo territoriali nelle quali veniva introdotta nella sostanza una forma di governo presidenziale, esaltando la centralità delle istituzioni rispetto alla centralità dei partiti. Questo è avvenuto prima con l'elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia e poi con l'elezione diretta dei Presidenti delle Regioni, i cd. Governatori.

L'elezione diretta dei vertici monocratici delle istituzioni territoriali, costruita su modelli elettorali molto diversificati, ha portato a svuotare nella sostanza la funzione di mediazione dei partiti politici che si esprimeva tradizionalmente nelle assemblee consiliari, per dar spazio a logiche di cooptazione politica tra partiti e vertici istituzionali, che hanno portato ad ingrossare sensibilmente le fila delle persone che vivono di politica perché "nominate" come assessori, come dirigenti scelti fiduciariamente dai politici, come rappresentanti nei tanti enti di secondo grado.

Parallelamente alla scelta presidenziale si è avviata l'evoluzione in senso federale della forma di stato repubblicana che ha trovato un suo primo coronamento nella riforma costituzionale del 2001 in cui Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato sono tutti considerati elementi costitutivi della Repubblica. La scelta non è stata portata fino in fondo perché non si è riformato il sistema parlamentare con l'istituzione di un Senato federale rappresentativo dei territori. E' evidente che, senza questa riforma, non può esistere un sistema federale.

Negli ultimi 10 anni, le maggioranze di centrodestra guidate da Berlusconi e Bossi hanno cercato di forzare l'evoluzione dell'ordinamento italiano verso un modello presidenziale e federale, con proposte di riforma costituzionale che però sono state bocciate dai cittadini nel referendum costituzionale del 2006. Visto il fallimento di questa riforma costituzionale esse hanno dato priorità,  in questa legislatura, ad una parziale attuazione della riforma del titolo V della Costituzione, attraverso la legge delega sul federalismo fiscale.

Il Governo Monti, di fronte alle emergenze dei conti pubblici, ha messo al centro il tema della tenuta della finanza pubblica rispetto agli assetti costituzionali. Nei suoi primi mesi di azione Monti non ha affrontato direttamente il tema delle riforme istituzionali, ma con diverse scelte ha fatto capire che la prospettiva istituzionale era cambiata.

Da un lato, ha nella sostanza svuotato il processo di attuazione della legge delega sul federalismo fiscale (legge 42/09). Dall'altro, ha operato una ferita insanabile all'attuazione della riforma costituzionale del 2001, attraverso lo svuotamento delle Province in attesa della loro completa abolizione dalla Costituzione e la previsione di un sistema di elezione indiretto (di secondo grado) degli organi di governo provinciali. Da ultimo, ha spostato l'attenzione dal federalismo di casa nostra alla prospettiva della costruzione di un sistema federale di governo a livello europeo.

Con i decreti legge successivi, ed in particolare con quello sulla spending review, c'è stato un parziale cambio di rotta. Accanto allo svuotamento delle istituzioni territoriali a partire dalle loro finanze, il Governo ha iniziato ad abbozzare un disegno di riordino delle istituzioni territoriali attraverso la previsione di norme cogenti sulle unioni di comuni, sul riordino delle istituzioni provinciali e sull’istituzione delle città metropolitane, in attuazione dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione dell’art. 118 della Costituzione.

Questo disegno è molto ambizioso perché mette mano per la prima volta in modo organico all’organizzazione della pubblica amministrazione nel territorio, riordinando non solo le istituzioni territoriali ma anche gli uffici periferici dello Stato.

Sta ora alle istituzioni territoriali cogliere la sfida aperta dal Governo e mettere in atto da subito nei territori i percorsi di svolgimento associato delle funzioni comunali (attraverso le unioni di comuni, le unioni speciali o le convenzioni), di riordino delle istituzioni provinciali (tramite i CAL e le proposte regionali) e di istituzione delle Città metropolitane (attraverso le conferenze metropolitane previste dalla legge). E’ un’occasione per ridisegnare dal basso tutta l’amministrazione territoriale per renderla più forte ed adeguata allo svolgimento dei compiti previsti dalla Costituzione.

Le forze del centrosinistra, progressiste e moderate, che hanno a cuore la Costituzione repubblicana e l'unificazione politica dell'Europa, devono evitare nella prossima legislatura ulteriori strappi istituzionali e portare a compimento il processo di riordino delle istituzioni pubbliche che è stato avviato, ridando centralità ed efficienza ad un Parlamento profondamente riformato e mettendo fine alla stagione del presidenzialismo plebiscitario e all'abuso della decretazione d'urgenza, che non ha portato grandi risultati.

Il riordino delle istituzioni territoriali, un quadro normativo più stabile e coerente con la Costituzione vigente, insieme alla revisione delle norme più “stupide” del patto di stabilità interno, consentirebbe ai Comuni e alle Province di dare un contributo significativo alla ripresa della crescita, già dal prossimo anno, con un rilancio diffuso degli investimenti nei territori.

Questo processo dovrebbe essere accompagnato dalla definizione in sede europea di strumenti che, nel rispetto degli accordi sanciti sul rispetto dei vincoli del patto di stabilità, possano avviare una politica comune espansiva che compensi i vincoli sul pareggio di bilancio che oggi limitano l’azione degli Stati membri.

Scelte di questo tipo non hanno bisogno di riforme costituzionali. Possono essere avviate se c’è una chiara maggioranza politica alla guida del Paese che sappia tradurle in scelte legislative e di governo e che, in sede europea, sia in grado di costruire un’alleanza per l’uscita dalle politiche di austerità e il rilancio della crescita.

Un discorso diverso deve essere invece fatto per avviare riforme costituzionali più profonde che devono necessariamente coinvolgere l’insieme delle forze politiche, sia a livello nazionale, sia a livello europeo.

Le elezioni europee del 2014 possono essere l’occasione per rilanciare la prospettiva dell’unione politica degli “Stati Uniti di Europa” attraverso l’elezione di un’assemblea costituente che sposti la discussione sul federalismo dagli Stati membri all'Europa.

La nuova legislatura, in Italia, soprattutto se nascerà da una legge elettorale che esce dalla logica plebiscitaria, può essere l’occasione per definire in Parlamento una visione condivisa tra le forze politiche sulla forma di governo e sulla forma di stato, che superi i limiti della lunga transizione istituzionale che ha caratterizzato la seconda Repubblica, che riassumerei nella formula: “il federalismo e il presidenzialismo de noantri”.