lunedì 30 dicembre 2013

DIRITTI POLITICI NEGATI

La legge di stabilità 2014 (legge 147/2013),  nell'art. 1, comma 325, prevede il commissariamento delle Province che dovrebbero andare voto nel turno elettorale amministrativo del 2014 per il rinnovo dei loro organi di governo. Allo stesso tempo, nell'art. 1, comma 441, la legge prevede la proroga dei commissariamenti per le Province che sono state commissariate negli anni precedenti.
  • 325. Le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, relative al commissariamento delle amministrazioni provinciali si applicano ai casi di scadenza naturale del mandato nonché di cessazione anticipata degli organi provinciali che intervengono in una data compresa tra il 10 gennaio e il 30 giugno 2014.
  • 441. Le gestioni commissariali di cui all'articolo 2, comma 1, della legge 15 ottobre 2013, n. 119, nonché quelle disposte in applicazione dell'articolo 1, comma 115, terzo periodo, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, cessano il 30 giugno 2014.
Queste disposizioni di legge sono di dubbia legittimità, in quanto la disciplina regolativa della legge di stabilità (art. 11, comma 3, della legge di contabilità e finanza pubblica 196/09) impedisce l’inserimento in questo testo normativo di disposizioni normative di natura ordinamentale che non abbiano riflessi di carattere economico-finanziario.

L'illegittimità costituzionale dei commissariamenti delle Province è stata tra l'altro sollevata ora dall'ordinanza del TAR Sardegna del 13 dicembre 2013, che ha rimesso la questione alla Corte costituzionale per il contrasto con il principio di ragionevolezza delle norme che "non fissano un termine preciso e 'affidabile' di durata del regime commissariale"  e "contemporaneamente attribuiscono ai commissari (non soltanto il compito di liquidare i rapporti esistenti, ma anche) quello di erogare gli ordinari servizi provinciali".

Ancora una volta, purtroppo, il Parlamento approva disposizioni normative di dubbia costituzionalità che, oltre a produrre effetti negativi sul funzionamento ordinario delle amministrazioni provinciali, ledono il diritto dei cittadini, uomini e donne, di eleggere i propri rappresentanti nelle istituzioni provinciali, istituzioni esponenziali delle loro comunità territoriali, previste come elementi costitutivi della Repubblica nell'articolo 114 della Costituzione.

In base all'articolo 1 della Costituzione, principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico, l’Italia è una "Repubblica democratica" in cui "la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".

La Costituzione stessa prevede, all'articolo 48, che "sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. il suo esercizio è dovere civico."

Per questi motivi, i commissariamenti delle Province, oltre il termine necessario al normale rinnovo – attraverso le elezioni democratiche – degli organi di governo provinciali, sono in contrasto con la Costituzione repubblicana. Il protrarsi del commissariamento oltre la normale scadenza elettorale, infatti, nel nostro ordinamento è ammessa solo in via eccezionale, per sanzionare casi gravi di cattivo funzionamento degli enti (come le infiltrazioni della criminalità organizzata).

Allo stesso modo, sono in contrasto con la Costituzione anche i commissariamenti delle Province in vista della loro trasformazione in enti di secondo grado, come previsto nel ddl AC 1542-A che è stato approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati lo scorso 21 dicembre. Infatti, le limitazioni al diritto dei cittadini di eleggere i propri rappresentanti nelle istituzioni costitutive della Repubblica - in base agli articolo 1, 48 e 114 della Costituzione - non possono essere previste in legge ordinaria, ma solo con una espressa previsione costituzionale.

Non a caso, è la stessa Costituzione che, all'articolo 58, prevede la limitazione ai soli cittadini con più di 25 anni dei diritto di eleggere i rappresentanti nel Senato della Repubblica e, all'articolo 83, prevede l’elezione del Presidente della Repubblica da parte del Parlamento in seduta comune.

Contro queste disposizioni lesive dei diritti elettorali e dei diritti politici garantiti dalla Costituzione, ogni cittadino, uomo e donna, potrà ricorrere al giudice per far dichiarare l'incostituzionalità di una legge ordinaria che nega alle comunità locali il diritto di eleggere i propri rappresentanti nelle istituzioni della Repubblica.

venerdì 6 dicembre 2013

Con Gianni Cuperlo, per la Repubblica democratica fondata sulle autonomie e sul lavoro


Il congresso del partito democratico è un momento essenziale per recuperare il valore costitutivo dei principi di unità, autonomia, pluralismo e democrazia della Repubblica tra gli iscritti, gli elettori e i nostri tanti rappresentanti nelle istituzioni democratiche (nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni, nel Parlamento e in Europa).

Ma non solo. Il congresso è l’occasione per ricostruire un tessuto di partecipazione democratica, fuori dalle logiche correntizie e dalla proposta mediatica dell’uomo solo al comando, per mettere al centro della discussione politica il tema del lavoro.

La recessione economica e la scarsità delle risorse pubbliche disponibili, in questi anni,  hanno spinto lo Stato a riprendersi spazi di autonomia che la Costituzione assegna agli enti territoriali. La “legislazione emergenziale della crisi” ha scaricato sulle autonomie e sulle assemblee elettive i problemi della tenuta dei conti pubblici, privilegiando “scelte tecnocratiche di austerità” che hanno ristretto le possibilità di sviluppo economico, le capacità di innovazione e gli spazi di democrazia.

Per la rinascita del Paese, è necessaria una vera riforma delle istituzioni che riordini l’apparato statale e gli enti territoriali per renderli più moderni e funzionali alle esigenze dei cittadini: superando, i privilegi, gli sprechi e le sovrapposizioni (di strutture, competenze e costi) attraverso la netta distinzione delle competenze tra Stato - Regioni - Autonomie locali; migliorando la capacità di agire e di cooperare delle pubbliche amministrazioni attraverso un intelligente ricorso alla rete e alla digitalizzazione dei servizi.

Ma la riforma deve essere affrontata valorizzando l’originale scelta regionalista e autonomista della forma di stato italiana, con una puntuale modifica della Costituzione che porti in breve tempo al superamento del bicameralismo, alla riduzione del numero dei parlamentari e, soprattutto, alla riforma della legge elettorale, per ripristinare un rapporto di fiducia tra la politica e i cittadini, come lucidamente ci ha indicato la Corte costituzionale.

Devono essere evitate, invece, ulteriori forzature legislative che riducano ancor di più il ruolo delle autonomie, con scorciatoie plebiscitarie o tecnocratiche. Le autonomie territoriali e le assemblee elettive sono una risorsa per la crescita. Devono essere mobilitate attraverso una “golden rule” sugli investimenti, che anticipi una riforma del patto di stabilità anche in Europa, per uscire dalla logica della cieca austerità. La vera priorità, infatti, è la ripresa economica, per dare una prospettiva di occupazione e sviluppo ai giovani e al paese.

Con Gianni Cuperlo segretario del PD è possibile costruire un partito nuovo e un gruppo dirigente diffuso, al centro e nei territori, che non si chiude nel palazzo, nelle stanze del potere, ma vive e cresce nella società, interagendo con le persone in carne ed ossa, le formazioni sociali e le istituzioni rappresentative, per dare risposte vere alla domanda di lavoro e alla voglia di riscatto che cresce nella società: con le autonomie, per il lavoro e la democrazia.

martedì 12 novembre 2013

Congresso PD: ecco perché sostengo Gianni Cuperlo


Il congresso del PD che si sta svolgendo in questi giorni segna un punto di svolta per un partito nato 6 anni fa da una fusione a freddo tra i partiti eredi della tradizione comunista e della sinistra democristiana.

Il Congresso si basa su regole incerte, che nascono da uno statuto confuso e criticato da tutti, che l'assemblea nazionale non è riuscita a cambiare. Votano a ripetizione prima gli iscritti e poi gli elettori e non è chiaro quale sia il ruolo degli iscritti e quale sia il ruolo degli elettori. Non è stata stabilita una data di chiusura del tesseramento per il congresso. Da questa confusione nascono anche i casi di tesseramento gonfiato che si sono manifestati in questi giorni.

Tuttavia, per la prima volta, grazie alla saggia transizione garantita da Gugliemo Epifani,  il confronto per la leadership del partito avviene tra persone che non hanno svolto negli ultimi 20 anni funzioni di direzione politica a livello nazionale. Ciò porterà pertanto ad una svolta generazionale nella guida del PD.

I 4 candidati (Civati, Cuperlo, Pittella e Renzi) vogliono tutti, con diverse sfumature, una chiara collocazione del PD nella famiglia progressista, socialista e democratica europea. Su questo punto  hanno saputo trovare un minimo comune denominatore che rappresenta un momento importante per la costruzione del PD come partito veramente europeista e che costituirà  un passaggio essenziale soprattutto in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

Da cittadino italiano ed europeo, io spero che il PD sia effettivamente un partito democratico fodato sul lavoro e contribuisca alla nascita di un grande partito progressista in Europa, perché è a livello europeo che si gioca la sfida per il futuro della nostra democrazia. La proposta di Martin Schulz alla presidenza della Commissione in vista delle elezioni europee del 2014 è una scelta decisiva per costruire un'Europa più giusta e per riaprire la prospettiva della Federazione degli Stati Uniti d'Europa.

Ma la vera sfida del congresso PD si gioca su quale partito e quale sistema politico si vuole costruire in Italia nei prossimi anni.
  1. Una prima soluzione è quella di riproporre la vocazione maggioritaria del PD in un modello bipolare che non tiene conto dei risultati delle elezioni del 2013. Questa scelta implica un partito con identità debole che mira a prendere voti ovunque, la verticalizzazione delle scelte, una legge elettorale di tipo presidenziale (il sindaco d'Italia) che rompa con il sistema parlamentare della Costituzione repubblicana, il ricorso costante alle primarie e la trasformazione del partito in un comitato elettorale a sostegno de leader, guidato essenzialmente dagli eletti, dai parlamentari (al centro) e dai sindaci (in periferia)
  2. Una seconda soluzione è la rifondazione del PD come comunità di uomini e donne che utilizza fino in fondo le opportunità comunicative e partecipative offerte dalla rete, associazione autonoma rispetto alle istituzioni rappresentative che ridefinisce la sua identità, organizzazione e azione in coerenza con la Costituzione repubblicana. E' sicuramente una strada lunga e complessa, che prende atto della fine della seconda Repubblica e che comporta un profondo ripensamento della forma partito dopo il fallimento del modello plebiscitario, oligarchico e cooptativo su cui sono stati scelti i gruppi dirigenti attuali.
Io condivido questa seconda prospettiva, perché è la scelta che permette al PD di svolgere al meglio la sua funzione nazionale ed europea in questo momento, nel rispetto dei principi di democrazia, autonomia e pluralismo della Costituzione repubblicana. Il partito recupera così una visione autonoma, in grado di valorizzare il ruolo delle assemblee elettive ad ogni livello, di aprire un confronto vero con il Governo e con i movimenti presenti nella società, soprattutto in vista del momento in cui si dovranno definire le proposte, le candidature e le alleanze per le prossime elezioni politiche.

E' una scelta che obbliga a "resettare" il PD per come è stato costruito in questi anni, a partire da una seria valutazione del comportamento dei suoi dirigenti nella fase di elezione del Presidente della Repubblica, che ha mostrato chiaramente la mancanza di cultura di governo di un partito che si proponeva di guidare il Paese per cambiarlo profondamente. A mio avviso, i dirigenti che hanno ostacolato l'elezione prima di Marini e poi di Prodi, venendo meno all'impegno di condividere a maggioranza le scelte principali della coalizione Italia Bene Comune, non sono oggi credibili quando si candidano alla segreteria del PD.

Il prossimo segretario del PD deve avere una grande consapevolezza della necessità di distinguere oggi il ruolo di segretario del partito dal ruolo del possibile candidato premier della coalizione di centrosinistra. Abbiamo bisogno di un segretario che si metta al servizio del partito e che lo guidi unitariamente anche grazie alla  netta distinzione tra l'elezione dei gruppi dirigenti locali e l'elezione del segretario nazionale, che è stata saggiamente introdotta nel percorso congressuale. I segretari di circolo e i segretari di federazione hanno una legittimazione che nasce dalla volontà degli iscritti del territorio e non dalla semplice appartenenza ad una corrente e questo può consentire una gestione unitaria del partito anche a livello nazionale fuori dalla "guerra di bande" degli ultimi anni.

La costruzione di un partito autonomo è la migliore garanzia per un sostegno responsabile al Governo Letta, governo di necessità nato dalla situazione di stallo politico conseguente alle elezioni del 2013, con l'auspicio che esso possa contribuire a portare l'Italia e l'Europa fuori dalla crisi economica attraverso una maggiore equità, fino alla conclusione del semestre di presidenza italiana nella UE, e che possa favorire l'approvazione delle riforme istituzionali (della Costituzione e della legge elettorale) necessarie per mettere in sicurezza il nostro sistema democratico.

In conclusione, oggi il PD ha bisogno di un segretario che pensi al partito e al Paese, non al suo destino personale. Ritrovo queste mie riflessioni ed esigenze nel documento, nelle proposte e nei comportamenti concreti di Gianni Cuperlo ed è per questo che sostengo la sua candidatura a segretario del PD.

lunedì 11 novembre 2013

Ognuno è straniero nella sua città

"Viviamo così il tempo delle grandi città. Deliberatamente, il mondo è stato amputato di ciò che costituisce la sua permanenza: la natura, il mare, la collina, la meditazione delle sere" (A. Camus)

mercoledì 24 luglio 2013

Sulla sentenza della Corte costituzionale in materia di Province




Venerdì 19 luglio la Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza n. 220 del 3 luglio 2013, oggi pubblicata in Gazzetta Ufficiale, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme dei decreti legge che miravano a svuotare le Province trasformandole in enti di secondo grado senza funzioni fondamentali e che riordinavano le circoscrizioni provinciali attraverso accorpamenti o attraverso l'istituzione delle Città metropolitane.
In particolare sono stati dichiarati incostituzionali l’art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20bis del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.201, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, e gli articoli 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012, n.95, convertito con modificazioni , dall’art. 1, comma1, della legge  7 agosto 2012, n. 135, per violazione dell’art. 77 Cost., in relazione agli artt. 117, 2° comma, lett. p) e 133, 1° comma Cost., in quanto il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate.
La sentenza è di grande rilevanza poiché, per la prima volta, la Corte costituzionale pone un argine sicuro contro l'utilizzo della decretazione d'urgenza sulle tematiche che toccano l'ordinamento delle Province (e - quindi - di tutte le altre istituzioni territoriali) che possono vantare precise garanzie costituzionali a difesa della loro autonomia.
L'importanza del pronunciamento è rafforzata anche, in via preliminare, dall’ordinanza, deliberata nel corso dell’udienza pubblica, con la quale, sono stati dichiarati inammissibili gli interventi delle Province e dell’Unione delle Province d’Italia, in quanto il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via d’azione ai sensi dell’art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 - Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale -  si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa. Tuttavia, la Corte ha precisato che i soggetti privi di tale potestà - come i Comuni e le Province - possono esperire i mezzi di tutela delle rispettive posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente innanzi a questa Corte in via incidentale. Da questo pronunciamento si può dedurre che i Comuni e le Province potranno, da ora in poi, ricorrere direttamente dinanzi al giudice contro una legge lesiva delle loro prerogative costituzionali per accedere alla Corte costituzionale in via incidentale, previo il vaglio del giudice adito, senza dover attendere un atto amministrativo lesivo delle loro posizioni soggettive.
La Corte, sempre in via preliminare, ha respinto la richiesta dell'avvocatura dello Stato di dichiarare inammissibili i ricorsi delle Regioni a tutela delle Province in quanto «le Regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale» (ex plurimis, sentenze n. 311 del 2012, n. 298 del 2009, n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004).
Allo stesso tempo, ha rigettato l'eccezione di inammissibilità sollevata dall'avvocatura dello Stato rispetto a tutte le censure riguardanti l’asserita violazione dell’art. 77 Cost.. Le «Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi rispetto a quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo se la lamentata violazione determini una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite o ridondi sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni» (sentenza n. 33 del 2011; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 46, n. 20 e n. 8 del 2013; n. 311, n. 298, n. 200, n. 199, n. 198, n. 187, n. 178, n. 151, n. 80 e n. 22 del 2012). Ma vi è una violazione potenzialmente idonea a determinare una lesione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni, "non solo con riferimento alle competenze proprie delle Regioni ricorrenti (uniche legittimate ad esperire ricorsi in via di azione) ma anche con riguardo alle attribuzioni degli enti locali, quando sia lamentata dalle Regioni una potenziale lesione delle sfere di competenza degli stessi enti locali (sentenza n. 199 del 2012).
"Nei casi oggetto dei presenti giudizi, risulta evidente che le norme censurate incidono notevolmente sulle attribuzioni delle Province, sui modi di elezione degli amministratori, sulla composizione degli organi di governo e sui rapporti dei predetti enti con i Comuni e con le stesse Regioni. Si tratta di una riforma complessiva di una parte del sistema delle autonomie locali, destinata a ripercuotersi sull’intero assetto degli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione."
La Corte si è soffermata perciò in una valutazione approfondita della compatibilità dello strumento normativo del decreto-legge, quale delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost., con le norme costituzionali (in specie, ai fini del presente giudizio, con gli artt. 117, secondo comma, lettera p, e 133, primo comma) che prescrivono modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia sull’ordinamento delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale dei singoli enti, considerati dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost., insieme allo Stato e alle Regioni, elementi costitutivi della Repubblica, «con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione».
Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20 del d.l. n. 201 del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalle ricorrenti per violazione dell’art. 77 Cost., sono fondate poiché l’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la disciplina dei seguenti ambiti: «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane». “La citata norma costituzionale indica le componenti essenziali dell’intelaiatura dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli regionali. È appena il caso di rilevare che si tratta di norme ordinamentali, che non possono essere interamente condizionate dalla contingenza, sino al punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e d’urgenza».”
I decreti-legge possono essere utilizzati in questa materia per incidere su alcune funzioni, o su alcuni punti specifici dell'ordinamento locale, solo quando vi siano "casi straordinari". "Sono destinati ad operare immediatamente, allo scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità." Per questo motivo, il legislatore ordinario, con una norma di portata generale, ha previsto che il decreto-legge debba contenere «misure di immediata applicazione» (art. 15, comma 3, legge 400/88).
La Corte ha poi dichiarato l'incostituzionalità degli articoli 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012, n.95, convertito con modificazioni , dall’art. 1, comma 1, della legge  7 agosto 2012, n. 135, per violazione dell’art. 77 Cost., in relazione all'art. 133, 1° comma Cost.
La modificazione delle singole circoscrizioni provinciali richiede, a norma dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati – che deve necessariamente precedere l’iniziativa legislativa in senso stretto – ed il parere, non vincolante, della Regione. Sin dal dibattito in Assemblea costituente è emersa l’esigenza che l’iniziativa di modificare le circoscrizioni provinciali – con introduzione di nuovi enti, soppressione di quelli esistenti o semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori – fosse il frutto di iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il portato di decisioni politiche imposte dall’alto.”
Emerge dalle precedenti considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità – tra il decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi straordinari di necessità e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni, che certamente non può identificarsi con le suddette situazioni di fatto, se non altro perché l’iniziativa non può che essere frutto di una maturazione e di una concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della straordinarietà, ma piuttosto quella dell’esercizio ordinario di una facoltà prevista dalla Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già manifestatisi nelle popolazioni locali.
La Corte ha, invece, già ammesso in passato che "l’istituzione di una nuova Provincia possa essere effettuata mediante lo strumento della delega legislativa - come tra l’altro era stato suggerito nella proposta di riordino degli enti di area vasta avanzata dall’UPI nel febbraio 2012 -  purché «gli adempimenti procedurali destinati a “rinforzare” il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei Comuni e nel parere della Regione) possano intervenire, oltre che in relazione alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge delegata» (sentenza n. 347 del 1994)." In sostanza, l’iniziativa dei Comuni ed il parere della Regione si pongono, in caso di delega legislativa, come presupposti necessari perché possa essere emanato da parte del Governo il decreto di adempimento della delega. La stessa inversione cronologica non è possibile nel caso di un decreto-legge, giacché, a norma dell’art. 77, secondo comma, Cost., il Governo deve presentare alle Camere «il giorno stesso» dell’emanazione il disegno di legge di conversione. Non vi è spazio quindi perché si possa inserire l’iniziativa dei Comuni. Né quest’ultima potrebbe intervenire nel corso dell’iter parlamentare di conversione; non si tratterebbe più di una iniziativa, ma di un parere, mentre la norma costituzionale ben distingue il ruolo dei Comuni e della Regione nel prescritto procedimento “rinforzato”.
Le considerazioni che precedono non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore poiché gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dalle Regioni ricorrenti restano comunque assorbiti dal pronunciamento di illegittimità costituzionale delle norme introdotte con decreto-legge.
La Corte afferma espressamente che tale pronunciamento, non porta alla conclusione “che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative.”
Questo passaggio della sentenza si riferisce ai singoli enti (“uno degli enti”) non ai livelli di governo tipici della nostra forma di stato e previsti nell’art. 114 come istituzioni costitutive della Repubblica, Infatti, in base all’art. 5 della Costituzione, la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali (all’epoca del costituente i Comuni e le Province) e non può sopprimerle in toto. Tale principio, tuttavia, non riguarda l’esistenza di ciascun ente locale, ma il principio che l’ordinamento delle autonomie locali della Repubblica sia costituito da Comuni e Province. Il legislatore può pertanto modificare le circoscrizioni degli enti nelle forme previste dall’art. 133 Cost., ma con la riserva che il numero complessivo dei Comuni e delle Province sia tale da assicurare, in modo diffuso nel territorio della Repubblica, l’attuazione dei principi di autonomia, pluralismo e democrazia previsti dalla Costituzione.
In ogni modo l’illegittimità costituzionale delle disposizioni degli articoli 23, commi 14 – 20 bis, del DL 201/11 e 17-18 del DL 95/12  rende illegittimi, altresì, anche tutti gli altri atti che da queste norme sono derivati. Viene meno la sospensione dei termini operata dal comma 115, dell’art. 1, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge di stabilità 2013). Viene meno la riduzione delle funzioni fondamentali delle Province operata dall’art. 17 del DL 95/12 e si riespande l’elenco delle funzioni fondamentali dell’art. 21 della legge 42/09. Ma viene altresì meno il divieto di assunzioni stabilito dall’articolo 16, comma 9, del DL 95/12, stabilito in attesa di un riordino delle Province che ormai esiste più.
Ma l’incostituzionalità delle disposizioni sulle Province fa venire meno, soprattutto, il presupposto del commissariamento delle 21 Province i cui organi sono arrivati a scadenza. Ciò impone un intervento urgente - questo sì ammesso dalla Corte - per sanare il vuoto di legittimità e di responsabilità che si viene ora a creare nelle Province, al fine di ripristinare il normale funzionamento democratico degli enti attraverso le elezioni dei loro organi di governo.
Sulle Città metropolitane, l’illegittimità costituzionale dichiarata dell’art. 18 del DL 95/12 non porta alla automatica riviviscenza delle norme provvisorie per l’istituzione delle Città metropolitane inserite nella legge 42, poiché queste sono state esplicitamente abrogate dal comma primo dell’articolo 18. D’altronde da molte parti è stato osservato che le normative provvisorie per l’istituzione delle Città metropolitane degli ultimi anni hanno rappresentato una forzatura rispetto all’attuale riparto delle competenze legislative, in base al quale la competenza relativa all’istituzione delle Città metropolitane dovrebbe rientrare tra le materie di competenza residuale regionale.
Se si vuole veramente avviare il percorso di istituzione delle Città metropolitane nelle aree fortemente urbanizzate in cui è stato superato il rapporto città – campagna tipico dei territori provinciali, esigenza condivisa da molti, occorre allora procedere in modo ordinato attraverso una norma che inviti i diversi territori a condividere proposte concrete sulla base delle esperienze avviate nelle conferenze metropolitane e, poi, sulla base di un’intesa in Conferenza unificata, avviare specifici percorsi legislativi per l’istituzione delle Città metropolitane come enti di governo integrato delle aree metropolitane, attraverso norme che definiscano puntualmente funzioni, dimensioni territoriali, organi, sistemi elettorali e che prevedano la soppressione delle Province esistenti rispettando comunque le scadenze naturali dei mandati dei loro organi di governo elettivi.
In conclusione, la Corte costituzionale con la sentenza 220/13 non punisce il legislatore in sé, ma lascia aperta pertanto la possibilità di interventi legislativi anche profondi di riordino delle istituzioni territoriali, sia per via ordinaria, sia in sede di revisione costituzionale. Quel che è certo è che per la Corte esistono specifiche prerogative costituzionali degli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, che non possono essere intaccate tramite la decretazione d'urgenza e che consigliano di affrontare il tema del riordino delle istituzioni costitutive della Repubblica con la necessaria prudenza - facendo tesoro del principio di leale collaborazione istituzionale - e con un approccio di tipo sistematico, non frammentario ed episodico, come quelli finora posti in essere dal legislatore.

mercoledì 3 luglio 2013

La Corte costituzionale boccia i decreti legge di svuotamento-riordino delle Province




Riordino delle Province



            La Corte costituzionale nell’odierna camera di consiglio ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:
- dell’art. 23, commi 4,14,15,16,17,18,19,20,20bis del decreto-legge 6 dicembre 2011,n.201, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma1, della legge 22 dicembre 2011,n.214;
- degli articoli 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012, n.95, convertito con modificazioni , dall’art. 1, comma1, della legge  7 agosto 2012, n.135
Per violazione dell’art. 77 Cost., in relazione agli artt. 117, 2° comma, lett. p) e 133, 1° comma Cost. , in quanto il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio.



dal Palazzo della Consulta, 3 luglio 2013












L'unico commento possibile è che lo avevamo detto dall'inizio!

venerdì 26 aprile 2013

Reset PD


Dopo la rielezione di Napolitano a Presidente della Repubblica e dopo l'incarico ad Enrico Letta per la formazione del Governo di larghe intese, è possibile tirare le fila di una riflessione sui risultati delle elezioni politiche del febbraio 2013 per capire le prospettive che si aprono alla diverse forze politiche in campo e, soprattutto, al PD.

Dalle elezioni non é emersa nessuna maggioranza politica chiara ma sembra comunque saltato l'assetto bipolare del sistema politico italiano su cui era stata costruita la cosiddetta seconda Repubblica. La coalizione di centrosinistra ha infatti vinto per un soffio le elezioni alla Camera dei Deputati, con appena il 29,5% contro il 29,1% del centrodestra, il 25,5% del M5S e il 10,5% del centro di Scelta Civica. Se si aggiunge il dato del 25% di astensione dal voto emerge con charezza una maggioranza del Paese che ha contestato profondamente il sistema politico italiano.

La coalizione Italia Bene Comune ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, grazie al premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale, ma non ha avuto la maggioranza assoluta dei seggi al Senato.

Di fronte a questa situazione di stallo, Bersani e la coalizione Italia Bene Comune, consapevoli della responsabilità che gli elettori hanno affidato alla coalizione che ha ottenuto la maggioranza dei seggi, hanno avanzato una proposta politica imperniata su un Governo di cambiamento (che esplicitamente coinvolgesse il M5S) e sulla condivisione delle cariche istituzionali (Presidenti delle Camere, Presidente della Repubblica, Presidenza di una eventuale convenzione costituzionale) con le altre forze politiche presenti in Parlamento.

Questa strategia ha trovato una prima parziale conferma nell'elezione dei Presidenti della Camera e del Senato, ma è venuta meno di fronte all'impossibilità di avviare un vero confronto tra il centrosinistra e il M5S intorno alla proposta di un Governo di cambiamento guidato da Bersani.

Questa situazione ha portato alla nomina dei saggi da parte Napolitano e ha spostato l'attenzione dal Governo all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

Sulla base delle indicazioni emerse dalla coalizione Italia Bene Comune e della condivisione trovata tra le altre forze politiche, é stata avanzata al Parlamento riunito in seduta comune la proposta di eleggere Franco Marini alla prima votazione per il Presidente della Repubblica. Era una personalità che proveniva dal partito democratico e da una storia legata al mondo del lavoro che aveva il consenso anche del centrodestra come figura di garanzia dell'unità nazionale.

Questa proposta non ha raggiunto la maggioranza richiesta dei 2/3 dei voti, soprattutto per il fatto che oltre 200 grandi elettori della coalizione Italia Bene Comune sono venuti meno all'impegno preso nella Carta d'intenti di votare in modo responsabile unitariamente sulle scelte che sarebbero state prese anche a maggioranza nella coalizione. Rispetto alla strategia comune inizialmente condivisa sono emerse opzioni diverse che hanno trovato riscontro nelle dichiarazioni di esponenti del centrosinistra e che sono esplose a seguito della candidatura di Stefano Rodotà avanzata dal M5S.

La mancanza di unità e reponsabilità é stata confermata anche quando sono mancati 101 voti a Romano Prodi, proposta avanzata con un voto unanime (!?!) dei grandi elettori della coalizione di centrosinistra. Scelta che ha portato alle dimissioni di Bersani e alla fine della coalizione Italia Bene Comune.

In sintesi: Berlusconi resta il leader del centrodestra anche dopo aver perso per tre volte le elezioni politiche e il centrosinistra si è autodistrutto facendo cadere il leader che  - anche se di poco - aveva vinto le elezioni. Complimenti!

Di fronte al harakiri del centrosinistra, ovvero della coalizione che comunque aveva una maggioranza numerica in Parlamento, le principali forze politiche si sono ritrovate intorno alla proposta di rieleggere Giorgio Napolitano come Presidente della Repubblica e di garantire la formazione di un Governo di larghe intese, con l'appoggio del PD, del PDL e di Scelta Civica, e con l'opposizione del M5S, di SEL e della Lega.

Il fallimento della strategia scelta dal PD con la formazione della coalizione Italia Bene Comune pone oggi il centrosinistra in una situazione difficile soprattutto perché il PD e SEL scelgono prospettive politiche diverse.

Di fronte a questa situazione il PD dovrà sostenere il Governo formato da Enrico Letta nella speranza che esso possa dare le risposte chieste dal Paese e indicate in gran parte anche nei rapporti elaborati dai saggi nominati da Napolitano. Spero che i parlamentari del PD siano uniti nella scelta della fiducia al Governo e rimandino il confronto tra le diverse posizioni al dibattito congressuale.

Il PD, infatti, dovrà ben presto andare al congresso e si troverà di fronte ad un bivio.

  1. Da un lato c'è la strada indicata da Matteo Renzi, con  il recupero della vocazione maggioritaria del PD, attraverso la scelta del presidenzialismo (il Sindaco d'Italia), la rottura a sinistra e la trasformazione del partito in un comitato elettorale a sostegno del leader.
  2. Dall'altro, c'è la rifondazione del PD come partito fortemente inserito nella società che recupera autonomia rispetto alle istituzioni (come indicato da Fabrizio Barca) e che ridefinisce la sua identità, organizzazione, capacità di azione sul modello dei partiti progressisti e socialdemocratici europei (come indicato da molti dirigenti del PD).
La seconda prospettiva é sicuramente più lunga e complessa. Comporta un profondo ripensamento del modello di partito dopo il fallimento del sistema plebiscitario, oligarchico e cooptativo su cui sono stati scelti i gruppi dirigenti attuali, che ha portato alla feudalizzazione dei gruppi dirigenti e all'irresponsabilità evidenti nelle scelte compiute in questi giorni.

Ma è la scelta che permette al PD di svolgere al meglio la sua funzione nazionale ed europea. In questo modo il PD recupera una visione sociale autonoma, in grado di aprire un dialogo con i movimenti presenti nella società e di interagire con le forze politiche che si collocano alla sinistra e al centro del sistema politico italiano, anche nel momento in cui si dovranno definire le proposte, le candidature e le alleanze per le prossime e elezioni politiche, prendendo atto della fine della seconda Repubblica e del sistema bipolare.

Da cittadino europeo sinceramente democratico e di sinistra, io spero che usciamo dalla macerie della coalizione di centrosinistra di oggi, con la nascita nel 2013 di un grande partito socialista e democratico in Europa, che proponga un unico candidato alla presidenza della Commissione e che apra finalmente la prospettiva della Federazione degli Stati Uniti d'Europa, in vista delle elezioni europee del prossimo anno.

giovedì 24 gennaio 2013

Gli enti locali, un risorsa per la ripresa


La ripresa della crescita in Italia dipende in grande parte dalla capacità di ricostruire un circuito di fiducia tra la società e le istituzioni.

Con il protrarsi della recessione, le esigenze di revisione della spesa pubblica sono ancora più evidenti. Secondo la maggior parte delle stime economiche, l’Italia ritornerà al PIL del 2007 solo nel 2018-19 e dovrà fare fronte agli impegni delle amministrazioni pubbliche con meno risorse. Rendere tutte le istituzioni più snelle e funzionali in vista della ripresa dovrebbe pertanto essere un obiettivo condiviso.

Nella legislatura che si chiude, si è perseguito un disegno di svuotamento della capacità di spesa e di azione degli enti locali, che sono stati ritenuti, erroneamente, come sedi di sperpero. Ma, con la spending review, è stato abbozzato un disegno di riordino delle funzioni e delle dimensioni degli enti locali (unioni di comuni, riordino delle istituzioni provinciali, istituzione delle città metropolitane) dalla cui attuazione può derivare un ridisegno complessivo dell’amministrazione pubblica (anche statale e regionale) nel territorio.

Il futuro Governo dovrà completare il processo di riordino avviato. Ma dovrà soprattutto rivedere le norme più “stupide” del patto di stabilità interno, per consentire agli enti territoriali di rilanciare gli investimenti già dal prossimo anno.  I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono infatti una risorsa essenziale per il tessuto produttivo e la ripresa della nostra economia.

Nel programma del centrosinistra sono chiaramente elencate quali siano le priorità che si dovranno affrontare nella prossima legislatura:
  • ricostruire l'Italia guidando la sua economia fuori dalla crisi;
  • ridare autorevolezza alle istituzioni e alla politica ripartendo dalla Costituzione;
  • rilanciare l’integrazione politica dell’Europa.
Per la loro storia personale e politica, Bersani e molti candidati del centrosinistra in Parlamento hanno nel loro DNA la capacità di relazionarsi lealmente con le autonomie territoriali e con le parti sociali e la consapevolezza che siamo tutti sulla stessa barca.

Ma un vero cambiamento potrà avvenire se l'Italia saprà riposizionarsi in modo coerente in Europa a partire dalla sua storia e collocazione gografica e, nel rispetto degli accordi sanciti, contribuirà ad avviare una politica economica a livello europeo che rilanci gli investimenti in modo da compensare i vincoli sul pareggio di bilancio che oggi limitano l’azione degli Stati.


martedì 8 gennaio 2013

Povince 1 2 X : la storia infinita



Premessa
La legislatura che sta volgendo a termine ha riaperto in profondità il dibattito sulle Province, che per 150 anni hanno rappresentato il livello di governo di area vasta su cui si è costruito il rapporto tra l’amministrazione pubblica (statale) e il territorio.
Con l’acuirsi della recessione è ripreso in modo veemente il dibattito sull’abolizione delle Province, sollecitato da molte forze politiche che avevano inserito questa proposta nei loro programmi. L’Italia, infatti, deve fare fronte agli impegni delle amministrazioni pubbliche con meno risorse a disposizione, poiché secondo le stime economiche più accreditate, ritornerà al PIL del 2007 solo nel 2018-19.
Questa situazione finanziaria ha spinto le istituzioni europee, come risulta dalla lettera della BCE al Governo italiano del 5 agosto 2011, a richiedere all’Italia di ridurre la spesa pubblica. Tra gli interventi individuati come prioritari c’era l’abolizione o l’accorpamento delle Province.
Un livello di governo intermedio tra i Comuni e le Regioni è presente in tutti i grandi paesi europei ma in Italia, a questo livello, ci sono troppe sovrapposizioni di funzioni. Da un lato, ci sono le Province, come enti autonomi a diretta legittimazione democratica previsti dalla Costituzione. Dall’altro, gli uffici dell’amministrazione statale periferica e una molteplicità di strutture, enti, società  create dalla legislazione regionale. Opinione comune a molti pertanto è che occorra definire un governo più funzionale delle aree vaste, per rispondere in modo più appropriato alle esigenze dei cittadini e dei territori.
L’intervento della BCE è sembrato a molti osservatori irrituale, poiché fuoriusciva dagli ambiti di intervento monetario e finanziario tipici di questa istituzione europea ed appariva, anzi, in contrasto con i principi della Carta europea delle autonomie locali.
Nonostante ciò, il Governo Berlusconi ha confermato il suo impegno all’abolizione delle Province,  con l’approvazione in via preliminare di un disegno di legge costituzionale di soppressione degli enti intermedi che avrebbe portato all’abolizione delle province dalla Costituzione e con la lettera del Governo Berlusconi al Presidente della commissione europea e al Presidente del consiglio europeo del 26 ottobre 2011 in cui si è impegnato ad adottare “una normativa transitoria per il trasferimento del relativo personale nei ruoli delle regioni e dei comuni”.
Una volta caduto il Governo Berlusconi, questi impegni internazionali sono stati ereditati dal Governo Monti, che ha cercato di attuarli con interventi d’urgenza che - a mio avviso - dovrebbero essere esclusi quando si cercano di riformare gli assetti istituzionali e che alla fine sono risultati approssimativi e contraddittori.

1. Svuotamento e abolizione delle Province
Il primo intervento è stato guidato dalle dichiarazioni programmatiche di Monti al Senato del 17 novembre 2011 nelle quali egli ha affermato chiaramente: “Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria. La prevista specifica modifica della Costituzione potrà completare il processo, consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l’Europa.”
Questa scelta programmatica è stata tradotta nelle disposizioni dell’art. 23, commi 14 – 20 bis, del decreto legge cd. Salva Italia, che hanno l’obiettivo di svuotare le Province delle loro funzioni per trasferirle a Regioni e Comuni e di trasformarle in enti di secondo grado, nella prospettiva della completa abolizione delle Province dalla Costituzione.
Questa scelta è in netto contrasto con i principi costituzionali sulle autonomie locali (articoli 1 e 5) che impongono il carattere democratico delle istituzioni costitutive della Repubblica e con le disposizioni costituzionali sulle Province (articoli 114, 117, 118, 119) che garantiscono ad esse funzioni fondamentali e funzioni proprie, nonché l’autonomia nella gestione delle risorse necessarie per il loro svolgimento. Non a caso, contro il provvedimento del Governo, molte Regioni hanno fatto ricorsi alla Corte costituzionale, sui quali la Corte non si è ancora pronunciata, poiché l’udienza del 6 novembre 2012 è stata rinviata.
Essa presupporrebbe un più profondo disegno di riordino delle istituzioni locali, a livello costituzionale, per il quale le Province diventano enti senza funzioni proprie che svolgono in sussidiarietà le funzioni che i Comuni non possono svolgere autonomamente. Per essere coerente, questa scelta dovrebbe portare al completo superamento delle attuali forme di svolgimento associato delle funzioni comunali e l’aumento del numero delle circoscrizioni provinciali secondo il modello tedesco, in cui il complessivo assetto delle autonomie locali è rimesso ai land.
Ma il provvedimento è stato contrastato anche nel merito, poiché - durante la stessa conversione del decreto in  Parlamento - è stato sottolineato come da esso sarebbero derivati non risparmi, ma ulteriori aggravi per la spesa pubblica. Nel confronto politico ed istituzionale è emersa perciò una proposta più coerente di riordino istituzionale che, pur andando nella direzione indicata dalla BCE, sarebbe più coerente con la Costituzione repubblicana e potrebbe comportare maggiori risparmi di spesa pubblica.

2. Riordino delle Province
Nel 2012, superata la fase di emergenza che ha portato al decreto legge 201/11, il Governo Monti ha cominciato a definire una strategia di intervento di più lungo respiro per avviare una riduzione strutturale della spesa pubblica in Italia con l’avvio della “Spending Review”.
Nell’ambito del dibattito sulla razionalizzazione della spesa pubblica, quando ha avviato la discussione sulla spending review, il Governo aveva davanti due scenari:
  • abolire le Province lungo la strada indicata dal Decreto Salva Italia e articolare la PA a livello regionale passando da 100 a 20 uffici territoriali del governo;
  • riordinare le Province attraverso opportuni accorpamenti riducendo il numero degli uffici periferici del governo da 100 a (circa) 70.
Con il decreto legge sulla “spending review” si è scelta la seconda soluzione, più rispettosa dell’assetto costituzionale e della storia del Paese, avviando un processo di riordino delle istituzioni territoriali che passa per:
  • l’individuazione delle loro funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, in attuazione della riforma costituzionale del 2001;
  • il riordino delle Province più piccole (articolo 17), l’istituzione delle Città metropolitane (articolo 18) e l’obbligatorietà della gestione associata delle funzioni per i piccoli comuni (articolo 19);
  • il contestuale riordino dell’amministrazione statale periferica;
  • il superamento degli enti strumentali di non diretta derivazione democratica.
Il disegno perseguito da queste disposizioni non è più quello dell’abolizione delle Province come enti costitutivi della Repubblica, ma il ridisegno funzionale e territoriale delle Province, per fare in modo che esse abbiano chiare funzioni di governo di area vasta (che non si sovrappongono a quelle di altri livelli di governo) e dimensioni adeguate per svolgerle (attraverso il contenimento dei costi procapite per l’erogazione dei servizi, come indicato già nella ricerca della Bocconi del dicembre 2011).
L’obiettivo complessivo del decreto è “la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini” attraverso un profondo riordino istituzionale, affinché l’Italia, alla fine della recessione, possa avere un amministrazione più efficiente e leggera che sia in grado mantenere comunque un adeguato livello di servizi essenziali e di rilanciare gli investimenti per far crescere il Paese.
Perché questo obiettivo sia raggiunto, tuttavia, occorre coinvolgere tutti i diversi livelli istituzionali, andando a toccare gli sprechi e le rendite nascoste, a partire dai tanti enti, società e strutture di secondo grado, che svolgono funzioni pubbliche senza trasparenza e senza una diretta legittimazione democratica.
Purtroppo anche questo disegno di riforma è stato perseguito con la decretazione d’urgenza, in modo confuso e  contraddittorio.
Da un lato si è previsto il riordino delle Province che doveva avvenire a partire dalle proposte avanzate dai territori. Dall’altro si sono decisi tagli lineari ai bilanci delle Province (articolo 16) che ledono la loro autonomia finanziaria secondo una tendenza di centralizzazione delle politiche pubbliche e, soprattutto, non sono state superate e abrogate le disposizioni sulle Province del decreto “Salva Italia”, che seguono un altro disegno istituzionale.
Al contrario, il Governo ha presentato alla Camera dei Deputati il ddl per le elezioni di secondo grado degli organi di governo delle Province in attuazione delle disposizioni del decreto “salva Italia”, provvedimento il cui iter è stato bloccato dalla Camera, perché in contraddizione con il processo di riordino avviato con il decreto sulla “spending review”.

X. La mancata riforma
Le contraddizioni evidenziate nelle disposizioni sulle Province hanno portato ad una complicazione del percorso di attuazione di questa riforma.
Il Governo, ha avviato l’attuazione della spending review,  con la delibera del 20 luglio 2012, che ha definito i requisiti minimi per procedere all’accorpamento delle Province e al ridisegno delle circoscrizioni provinciali e metropolitane (350.000 abitanti e 2.500 chilometri quadrati).
Sulla base di queste premesse, i Consigli regionali delle autonomie locali e la maggior parte delle Regioni hanno avanzato al Governo proposte di riordino delle circoscrizioni provinciali e metropolitane, in attuazione degli articolo 17 e 18 del decreto legge 95/12, in alcuni casi rispettose dei criteri stabiliti dal Governo, in alcuni casi in deroga. Solo le Regioni Calabria e Lazio non hanno inviato al Governo alcuna proposta di riordino.
Il Governo, sulla base delle proposte intervenute, per concludere il processo di riordino delle circoscrizioni ha emanato il decreto legge 188/12, con il quale ha provveduto a delimitare le circoscrizioni delle province e delle città metropolitane, riducendo il numero delle province nelle regioni a statuto ordinario da 86 a 51. Gli accorpamenti sono stati definiti dal Governo derogando in parte i criteri stabiliti nella delibera del 20 luglio. Ma soprattutto, sono state previste nel decreto disposizioni che forzavano i tempi del passaggio dalle vecchie province ai nuovi enti, dal punto di vista degli organi di governo.
Di fronte alle difficoltà registrate nella conversione del decreto, anche per il ripetuto utilizzo della decretazione d’urgenza e le contraddizioni del provvedimento, nel Parlamento si è formato un fronte trasversale contrario al completamento del processo di riordino circoscrizioni provinciali che ha portato la Commissione affari costituzionali del Senato a ritenere impossibile l’approvazione del provvedimento in tempo utile per la conversione in legge.
A questo punto, il Parlamento ha preso atto della mancata conclusione del processo di riforma delle Province e, nella legge di stabilità di fine anno, con una soluzione tampone, ha rinviato di un anno sia il processo di attuazione dell’art. 23 del dl 201/11, sia il processo di attuazione dell’art. 17 del dl 95/12, prevedendo il commissariamento delle province che dovrebbero andare al voto e lasciando al nuovo Governo e al nuovo Parlamento la decisione ultima sulla strada da intraprendere sul futuro delle Province.

Conclusioni
La prossima legislatura ha perciò tra i primi impegni quello del completamento della riforma delle Province solo abbozzata ma non portata a compimento.
Formalmente sono aperte 2 ipotesi:
  1. lo svuotamento delle funzioni delle Province in attesa di una loro complessiva abolizione dalla Costituzione, secondo quanto stabilito dai commi 14, 20bis, dell’art. 23 del decreto “Salva Italia”;
  2. il riordino delle Province e  l’istituzione delle Città metropolitane in attuazione degli articoli 17 e 18 del decreto sulla “spending review”.
Al di là degli aspetti di natura giuridica ed istituzionale, tuttavia, le forze politiche, nelle loro proposte programmatiche, dovrebbero mirare a dare innanzitutto una prospettiva di crescita all’economia italiana per uscire quanto prima dalla recessione.
Lo stravolgimento degli assetti istituzionali non risponde a questa primaria esigenza. Occorre tener presente che già su queste ipotesi di riforma si dovrà pronunciare la Corte costituzionale, sia relativamente ai ricorsi sull’art. 23 del decreto “Salva Italia”, sia relativamente ai ricorsi sull’art. 17 del decreto sulla “spending review”, sia sugli eventuali ricorsi che potrebbero arrivare sui tagli lineari ai bilanci delle Province operati nelle diverse manovre e, da ultimo, nella legge di stabilità.
Occorre, al contrario garantire una prospettiva coerente e stabile di sviluppo delle istituzioni locali che è la premessa necessaria per una ripresa degli investimenti nei territori che facilitino la ripresa dell’economia italiana.
A mio avviso la via maestra per la riforma delle istituzioni provinciali deve partire dal ruolo che esse hanno avuto nella storia unitaria del Paese e deve passare per una chiara individuazione delle funzioni di area vasta da attribuire alle nuove Province (con organi, risorse e dimensioni adeguate) o alle Città metropolitane, che in attuazione dell’art. 114 della Costituzione, devono diventare gli enti di area vasta per il governo integrato delle aree metropolitane nel quale fondere la capacità e le competenze dei Comuni capoluogo e delle Province.
L’attuazione dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione nel dimensionamento del governo di area vasta può essere il motore del riordino di tutta l’amministrazione italiana nel quadro della forma di stato autonomista e regionale oggi vigente, poiché può incentivare i processi virtuosi di associazionismo comunale, portare ad una riforma dell’amministrazione statale periferica e ad un profondo riordino delle strutture e degli enti che esercitano funzioni che potrebbero essere allocate tranquillamente in ambito provinciale o metropolitano.
La Riforma delle Province  può avvenire per via ordinaria, attraverso una legge delega che individui un percorso di revisione delle circoscrizioni provinciali e metropolitane con tempi certi, a partire da un accordo tra tutti gli attori interessati da raggiungere in Conferenza unificata.
Questa riforma può rappresentare il momento iniziale di un percorso più complessivo di riforme costituzionali che precisi la ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, ridisegni la mappa delle circoscrizioni regionali che deriva dall’elenco dell’art. 131 della Costituzione (superando le evidenti incongruenze) e porti finalmente alla riforma del sistema parlamentare.