Venerdì 19 luglio la Corte
Costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza n. 220 del 3 luglio
2013, oggi pubblicata in Gazzetta Ufficiale, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale delle
norme dei decreti legge che miravano a svuotare le Province trasformandole in
enti di secondo grado senza funzioni fondamentali e che riordinavano le
circoscrizioni provinciali attraverso accorpamenti o attraverso l'istituzione
delle Città metropolitane.
In particolare sono stati
dichiarati incostituzionali l’art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20bis
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.201, convertito con modificazioni
dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, e gli articoli 17 e
18 del decreto-legge 6 luglio 2012, n.95, convertito con modificazioni ,
dall’art. 1, comma1, della legge 7 agosto 2012, n. 135, per violazione
dell’art. 77 Cost., in relazione agli artt. 117, 2° comma, lett. p) e 133, 1°
comma Cost., in quanto il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi
straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per
realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme
censurate.
La sentenza è di grande
rilevanza poiché, per la prima volta, la Corte costituzionale pone un argine
sicuro contro l'utilizzo della decretazione d'urgenza sulle tematiche che
toccano l'ordinamento delle Province (e - quindi - di tutte le altre
istituzioni territoriali) che possono vantare precise garanzie costituzionali a
difesa della loro autonomia.
L'importanza del
pronunciamento è rafforzata anche, in via preliminare, dall’ordinanza,
deliberata nel corso dell’udienza pubblica, con la quale, sono stati dichiarati
inammissibili gli interventi delle Province e dell’Unione delle Province
d’Italia, in quanto il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in
via d’azione ai sensi dell’art. 127 Cost. e degli artt. 31 e seguenti della
legge 11 marzo 1953, n. 87 - Norme sulla costituzione e sul funzionamento della
Corte costituzionale - si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di
potestà legislativa. Tuttavia, la Corte ha precisato che i soggetti privi di
tale potestà - come i Comuni e le Province - possono esperire i mezzi di tutela
delle rispettive posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre
istanze giurisdizionali ed eventualmente innanzi a questa Corte in via
incidentale. Da questo pronunciamento si può dedurre che i Comuni e le Province
potranno, da ora in poi, ricorrere direttamente dinanzi al giudice contro una
legge lesiva delle loro prerogative costituzionali per accedere alla Corte
costituzionale in via incidentale, previo il vaglio del giudice adito, senza
dover attendere un atto amministrativo lesivo delle loro posizioni soggettive.
La Corte, sempre in via
preliminare, ha respinto la richiesta dell'avvocatura dello Stato di dichiarare
inammissibili i ricorsi delle Regioni a tutela delle Province in quanto «le Regioni sono legittimate a denunciare la
legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali,
indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza
legislativa regionale» (ex plurimis, sentenze n. 311 del 2012, n. 298 del
2009, n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004).
Allo stesso tempo, ha
rigettato l'eccezione di inammissibilità sollevata dall'avvocatura dello Stato
rispetto a tutte le censure riguardanti l’asserita violazione dell’art. 77
Cost.. Le «Regioni possono evocare
parametri di legittimità diversi rispetto a quelli che sovrintendono al riparto
di attribuzioni solo se la lamentata violazione determini una compromissione
delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite o ridondi sul riparto
di competenze legislative tra Stato e Regioni» (sentenza n. 33 del 2011; in
senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 46, n. 20 e n. 8 del 2013; n. 311, n.
298, n. 200, n. 199, n. 198, n. 187, n. 178, n. 151, n. 80 e n. 22 del 2012).
Ma vi è una violazione potenzialmente idonea a determinare una lesione delle
attribuzioni costituzionali delle Regioni, "non solo con riferimento alle competenze proprie delle Regioni
ricorrenti (uniche legittimate ad esperire ricorsi in via di azione) ma anche
con riguardo alle attribuzioni degli enti locali, quando sia lamentata dalle
Regioni una potenziale lesione delle sfere di competenza degli stessi enti
locali” (sentenza n. 199 del
2012).
"Nei casi oggetto
dei presenti giudizi, risulta evidente che le norme censurate incidono
notevolmente sulle attribuzioni delle Province, sui modi di elezione degli
amministratori, sulla composizione degli organi di governo e sui rapporti dei
predetti enti con i Comuni e con le stesse Regioni. Si tratta di una riforma
complessiva di una parte del sistema delle autonomie locali, destinata a
ripercuotersi sull’intero assetto degli enti esponenziali delle comunità
territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione."
La Corte si è soffermata
perciò in una valutazione approfondita della compatibilità dello strumento
normativo del decreto-legge, quale delineato e disciplinato dall’art. 77 Cost.,
con le norme costituzionali (in specie, ai fini del presente giudizio, con gli
artt. 117, secondo comma, lettera p, e 133, primo comma) che prescrivono
modalità e procedure per incidere, in senso modificativo, sia sull’ordinamento
delle autonomie locali, sia sulla conformazione territoriale dei singoli enti,
considerati dall’art. 114, primo e secondo comma, Cost., insieme allo Stato e
alle Regioni, elementi costitutivi della Repubblica, «con propri statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione».
Le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 23, commi 14, 15, 16, 17, 18, 19 e 20 del d.l. n. 201
del 2011, e degli artt. 17 e 18 del d.l. n. 95 del 2012, promosse dalle
ricorrenti per violazione dell’art. 77 Cost., sono fondate poiché l’art. 117,
secondo comma, lettera p), della Costituzione attribuisce alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato la disciplina dei seguenti ambiti: «legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane». “La
citata norma costituzionale indica le componenti essenziali dell’intelaiatura
dell’ordinamento degli enti locali, per loro natura disciplinate da leggi
destinate a durare nel tempo e rispondenti ad esigenze sociali ed istituzionali
di lungo periodo, secondo le linee di svolgimento dei princìpi costituzionali
nel processo attuativo delineato dal legislatore statale ed integrato da quelli
regionali. È appena il caso di rilevare che si tratta di norme ordinamentali,
che non possono essere interamente condizionate dalla contingenza, sino al
punto da costringere il dibattito parlamentare sulle stesse nei ristretti
limiti tracciati dal secondo e terzo comma dell’art. 77 Cost., concepiti dal
legislatore costituente per interventi specifici e puntuali, resi necessari e
improcrastinabili dall’insorgere di «casi straordinari di necessità e
d’urgenza».”
I decreti-legge possono
essere utilizzati in questa materia per incidere su alcune funzioni, o su
alcuni punti specifici dell'ordinamento locale, solo quando vi siano "casi
straordinari". "Sono destinati ad operare immediatamente, allo
scopo di dare risposte normative rapide a situazioni bisognose di essere
regolate in modo adatto a fronteggiare le sopravvenute e urgenti necessità."
Per questo motivo, il legislatore ordinario, con una norma di portata
generale, ha previsto che il decreto-legge debba contenere «misure di immediata
applicazione» (art. 15, comma 3, legge 400/88).
La Corte ha poi dichiarato
l'incostituzionalità degli articoli 17 e 18 del decreto-legge 6 luglio 2012,
n.95, convertito con modificazioni , dall’art. 1, comma 1, della legge 7
agosto 2012, n. 135, per violazione dell’art. 77 Cost., in relazione all'art.
133, 1° comma Cost.
“La modificazione delle singole circoscrizioni provinciali richiede, a norma
dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati – che
deve necessariamente precedere l’iniziativa legislativa in senso stretto – ed
il parere, non vincolante, della Regione. Sin dal dibattito in Assemblea
costituente è emersa l’esigenza che l’iniziativa di modificare le
circoscrizioni provinciali – con introduzione di nuovi enti, soppressione di
quelli esistenti o semplice ridefinizione dei confini dei rispettivi territori
– fosse il frutto di iniziative nascenti dalle popolazioni interessate, tramite
i loro più immediati enti esponenziali, i Comuni, non il portato di decisioni
politiche imposte dall’alto.”
Emerge dalle precedenti
considerazioni che esiste una incompatibilità logica e giuridica – che
va al di là dello specifico oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità
– tra il decreto-legge, che presuppone che si verifichino casi
straordinari di necessità e urgenza, e la necessaria iniziativa dei Comuni,
che certamente non può identificarsi con le suddette situazioni di fatto, se
non altro perché l’iniziativa non può che essere frutto di una maturazione e di
una concertazione tra enti non suscettibile di assumere la veste della
straordinarietà, ma piuttosto quella dell’esercizio ordinario di una facoltà
prevista dalla Costituzione, in relazione a bisogni e interessi già
manifestatisi nelle popolazioni locali.
La Corte ha, invece, già
ammesso in passato che "l’istituzione di una nuova Provincia possa
essere effettuata mediante lo strumento della delega legislativa - come tra l’altro era stato suggerito nella
proposta di riordino degli enti di area vasta avanzata dall’UPI nel febbraio 2012
- purché «gli adempimenti procedurali
destinati a “rinforzare” il procedimento (e consistenti nell’iniziativa dei
Comuni e nel parere della Regione) possano intervenire, oltre che in relazione
alla fase di formazione della legge di delegazione, anche successivamente alla
stessa, con riferimento alla fase di formazione della legge delegata» (sentenza
n. 347 del 1994)." In sostanza, l’iniziativa dei Comuni ed il parere della
Regione si pongono, in caso di delega legislativa, come presupposti necessari
perché possa essere emanato da parte del Governo il decreto di adempimento
della delega. La stessa inversione cronologica non è possibile nel caso di un
decreto-legge, giacché, a norma dell’art. 77, secondo comma, Cost., il Governo
deve presentare alle Camere «il giorno stesso» dell’emanazione il disegno di
legge di conversione. Non vi è spazio quindi perché si possa inserire
l’iniziativa dei Comuni. Né quest’ultima potrebbe intervenire nel corso
dell’iter parlamentare di conversione; non si tratterebbe più di una
iniziativa, ma di un parere, mentre la norma costituzionale ben distingue il
ruolo dei Comuni e della Regione nel prescritto procedimento “rinforzato”.
Le considerazioni che
precedono non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore poiché
gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati dalle Regioni ricorrenti
restano comunque assorbiti dal pronunciamento di illegittimità costituzionale
delle norme introdotte con decreto-legge.
La Corte afferma
espressamente che tale pronunciamento, non porta alla conclusione “che sull’ordinamento degli enti locali si possa
intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda
sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia
togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente, che
non sia utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre
nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente
organizzative.”
Questo passaggio della
sentenza si riferisce ai singoli enti (“uno degli enti”) non ai livelli di
governo tipici della nostra forma di stato e previsti nell’art. 114 come
istituzioni costitutive della Repubblica, Infatti, in base all’art. 5 della
Costituzione, la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali (all’epoca
del costituente i Comuni e le Province) e non può sopprimerle in toto. Tale
principio, tuttavia, non riguarda l’esistenza di ciascun ente locale, ma il
principio che l’ordinamento delle autonomie locali della Repubblica sia
costituito da Comuni e Province. Il legislatore può pertanto modificare le
circoscrizioni degli enti nelle forme previste dall’art. 133 Cost., ma con la
riserva che il numero complessivo dei Comuni e delle Province sia tale da
assicurare, in modo diffuso nel territorio della Repubblica, l’attuazione dei
principi di autonomia, pluralismo e democrazia previsti dalla Costituzione.
In ogni modo
l’illegittimità costituzionale delle disposizioni degli articoli 23, commi 14 –
20 bis, del DL 201/11 e 17-18 del DL 95/12 rende illegittimi, altresì, anche tutti gli
altri atti che da queste norme sono derivati. Viene meno la sospensione dei
termini operata dal comma 115, dell’art. 1, della legge 24 dicembre 2012, n.
228 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge di stabilità 2013). Viene
meno la riduzione delle funzioni fondamentali delle Province operata dall’art.
17 del DL 95/12 e si riespande l’elenco delle funzioni fondamentali dell’art.
21 della legge 42/09. Ma viene altresì meno il divieto di assunzioni stabilito
dall’articolo 16, comma 9, del DL 95/12, stabilito in attesa di un riordino
delle Province che ormai esiste più.
Ma l’incostituzionalità
delle disposizioni sulle Province fa venire meno, soprattutto, il presupposto
del commissariamento delle 21 Province i cui organi sono arrivati a scadenza.
Ciò impone un intervento urgente - questo sì ammesso dalla Corte - per sanare
il vuoto di legittimità e di responsabilità che si viene ora a creare nelle
Province, al fine di ripristinare il normale funzionamento democratico degli
enti attraverso le elezioni dei loro organi di governo.
Sulle Città metropolitane,
l’illegittimità costituzionale dichiarata dell’art. 18 del DL 95/12 non porta
alla automatica riviviscenza delle norme provvisorie per l’istituzione delle
Città metropolitane inserite nella legge 42, poiché queste sono state
esplicitamente abrogate dal comma primo dell’articolo 18. D’altronde da molte
parti è stato osservato che le normative provvisorie per l’istituzione delle
Città metropolitane degli ultimi anni hanno rappresentato una forzatura
rispetto all’attuale riparto delle competenze legislative, in base al quale la
competenza relativa all’istituzione delle Città metropolitane dovrebbe
rientrare tra le materie di competenza residuale regionale.
Se si vuole veramente
avviare il percorso di istituzione delle Città metropolitane nelle aree fortemente
urbanizzate in cui è stato superato il rapporto città – campagna tipico dei
territori provinciali, esigenza condivisa da molti, occorre allora procedere in
modo ordinato attraverso una norma che inviti i diversi territori a condividere
proposte concrete sulla base delle esperienze avviate nelle conferenze
metropolitane e, poi, sulla base di un’intesa in Conferenza unificata, avviare
specifici percorsi legislativi per l’istituzione delle Città metropolitane come
enti di governo integrato delle aree metropolitane, attraverso norme che
definiscano puntualmente funzioni, dimensioni territoriali, organi, sistemi
elettorali e che prevedano la soppressione delle Province esistenti rispettando
comunque le scadenze naturali dei mandati dei loro organi di governo elettivi.
In conclusione, la Corte costituzionale
con la sentenza 220/13 non punisce il legislatore in sé, ma lascia aperta
pertanto la possibilità di interventi legislativi anche profondi di riordino
delle istituzioni territoriali, sia per via ordinaria, sia in sede di revisione
costituzionale. Quel che è certo è che per la Corte esistono specifiche
prerogative costituzionali degli enti esponenziali delle comunità
territoriali, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, che non possono
essere intaccate tramite la decretazione d'urgenza e che consigliano di
affrontare il tema del riordino delle istituzioni costitutive della Repubblica
con la necessaria prudenza - facendo tesoro del principio di leale
collaborazione istituzionale - e con un approccio di tipo sistematico, non
frammentario ed episodico, come quelli finora posti in essere dal legislatore.