martedì 21 giugno 2016

Buon lavoro ai Sindaci eletti


Le elezioni amministrative che si sono svolte in oltre 1300 Comuni - con oltre 13 milioni di elettori coinvolti e con importanti città al voto, come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Cagliari, Trieste - sono il primo e più immediato momento importante di verifica della capacità delle istituzioni di prossimità di rispondere ai bisogni dei cittadini.
I Comuni infatti sono le istituzioni di prossimità più vicine alle persone. Auguro per questo un buon lavoro ai Sindaci eletti, perché hanno oggi sulle loro spalle la responsabilità di tutto il governo locale, sia quello del loro Comune, sia dell’area vasta, e devono pertanto trovare le soluzioni più funzionali per gestire i servizi ai cittadini e ai territori, superando l'approccio “ente per ente” e dando vita a processi di collaborazione più stretta e di “amministrazione condivisa”.
Nel complesso dei Comuni al voto l’affluenza al primo turno del 5 giugno è stata del 62.13 per cento, oltre 5 punti in meno alla tornata elettorale precedente, ma oltre 10 punti in più rispetto al dato delle ultime 8 elezioni regionali. Al ballottaggio del 19 giugno l’affluenza alle urne è stata comunque superiore al 50% degli elettori. Un discorso a parte merita il dato dell’affluenza di Roma. Nella capitale si è riscontrata al primo turno un’affluenza del 57%, superiore di 5 punti rispetto alle elezioni amministrative precedenti, e comunque superiore al 50% anche nel ballottaggio.
Il calo della partecipazione al voto riflette le difficoltà di tutto il sistema politico di rispondere alla sofferenza che nasce dalla lunga recessione dell’economia italiana, ma si deve legare anche all’incapacità dei partiti di costruire un radicamento e una prospettiva politica duratura, andando oltre la ormai lunga transizione che stanno vivendo.
Nella maggioranza dei Comuni sotto i 15.000 abitanti si registra una tenuta del consenso delle liste di centrosinistra, anche se il dato deve essere letto con attenzione perché nella maggior parte dei casi il confronto si basa su liste civiche.
Per i Comuni superiori a 15.000 abitanti, in cui è previsto il ballottaggio, è possibile una lettura più politica dei risultati elettorali, che ovviamente deve innanzitutto tener conto del fatto che 2 grandi città -  il Comune di Roma, capitale della Repubblica, e il Comune di Torino – sono guidate da giovani sindache del M5S.
Nei 25 Comuni capoluogo siamo di fronte ad uno scenario diverso rispetto alla situazione precedente che vedeva 21 Comuni guidati dal centrosinistra e 4 Comuni guidati dal centrodestra. Oggi la situazione è più frammentata: ci sono 8 comuni guidati dal centrosinistra, 7 dal centrodestra, 3 dal M5S, 3 dalla destra, 1 dal centro e 3 da liste civiche di sinistra.
Questa tendenza si conferma anche negli altri 125 Comuni con più di 15.000 abitanti, 70 dei quali erano governati in precedenza da coalizioni di centrosinistra mentre non vi erano amministrazioni guidate dal M5S. Oggi la situazione è più diversificata, perché solo 42 Comuni sono guidati dal centrosinistra, 29 da liste civiche, 20 dal centrodestra e 17 dal MSS.
Anche nelle elezioni amministrative, pertanto, al netto della presenza delle liste civiche, si ripropone il quadro politico di tipo tripolare che caratterizza il livello nazionale. E’ questa una evidente novità, almeno da quando si è passati all’elezione diretta dei Sindaci, poiché si passa da uno schema bipolare ad uno schema tripolare nel confronto politico a livello locale.
Di fronte a quest’evoluzione profonda del sistema politico è auspicabile che la discussione sulla riforma costituzionale già avviata non si limiti allo scontro a priori tra i tifosi del Sì e i tifosi del No. Il referendum di ottobre sarà un’occasione importante per condividere la conoscenza dei valori e delle disposizioni costituzionali e, allo stesso tempo, per riflettere a fondo sul legame stretto che intercorre tra il sistema dei partiti, i sistemi elettorali, la “forma di governo” e la “forma di stato”, sulla base delle specifiche discipline previste nelle leggi ordinarie e nella Costituzione.

venerdì 3 giugno 2016

Le ragioni delle Autonomie nella riforma della Costituzione


La riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum in autunno, modifica la seconda parte della Costituzione in modo strutturale, per adeguare l’assetto istituzionale italiano al mutato contesto europeo e mondiale, nel solco dell’ispirazione unitaria e autonomista originaria della Repubblica, che ieri ha compiuto 70 anni, con 400 Sindaci che hanno partecipato per la prima volta alla sfilata celebrativa dell’anniversario in rappresentanza degli 8000 Comuni italiani.

La riforma del 2001 aveva scommesso su un assetto federale della Repubblica, a partire dai processi di decentramento avviati negli anni ’90, senza cambiare il sistema parlamentare fondato sul bicameralismo perfetto. L’Italia si è così attardata a suddividere il potere legislativo al suo interno quando, dopo l’entrata in vigore dell’Euro, avrebbe dovuto impegnarsi per unire politicamente l’Europa.

In questo modo, si sono complicati i processi di formazione delle decisioni pubbliche, è cresciuto a dismisura il ricorso alla decretazione d’urgenza e ai voti di fiducia, sono aumentati i conflitti tra i diversi livelli di Governo e, di conseguenza, è rimasto inattuato il principio di sussidiarietà, che rappresentava la principale innovazione costituzionale che avrebbe dovuto guidare il processo di riordino di tutta la pubblica amministrazione.

Con la recessione economica, a partire dal 2009, l’assetto (quasi) federale della Repubblica è entrato in crisi e si è fatta strada l’esigenza di una semplificazione del sistema istituzionale italiano per ridurre la spesa pubblica e migliorare la funzionalità delle istituzioni.

La riforma approvata nel 2016 non risolve tutti i problemi, ma offre una cornice stabile per consolidare le riforme avviate negli enti locali, nella pubblica amministrazione e nel Paese, perché costruisce un sistema istituzionale più equilibrato, nel quale i diversi livelli di governo, invece di competere tra di loro, collaborano e si integrano reciprocamente.

La principale novità è senza dubbio il superamento del bicameralismo perfetto e la trasformazione del Senato in una camera di rappresentanza delle autonomie, secondo un modello largamente diffuso negli altri paesi europei, in cui si prevede la partecipazione in forma collaborativa delle istituzioni territoriali al circuito della decisione parlamentare.

Il Governo avrà la fiducia della sola Camera dei Deputati, eletta con il nuovo sistema elettorale che risponde ad esigenze di rappresentatività e, allo stesso tempo, garantisce una maggioranza sicura per formare un Governo di legislatura che può portare avanti il suo programma in Parlamento, fermo restando il ruolo del Presidente della Repubblica e delle istituzioni di garanzia. Si delinea una “forma di governo parlamentare” più forte, in grado di decidere più velocemente e di incidere pertanto in modo efficace anche sui processi di decisione in Europa.

Secondo le indicazioni della Corte costituzionale, sono ricondotte in capo allo Stato alcune materie legislative che la riforma del titolo V del 2001 aveva assegnato alle Regioni. Il CNEL è abolito. Il Senato della Repubblica, composto da rappresentanti delle Regioni e dei Comuni, diventa la principale sede di raccordo tra lo Stato, le autonomie territoriali e le istituzioni europee, per condividere gli indirizzi legislativi e prevenire i conflitti di competenze.

La forma di stato è semplificata con il superamento delle Province come elementi costitutivi della Repubblica. Da 4 livelli di governo che non si integrano e sono spesso in conflitto (Comuni, Province/Città metropolitane, Regioni, Stato) si passa a 3 livelli di governo (Comuni/Città metropolitane, Regioni, Stato) che devono cooperare tra di loro.

Tutto il Governo politico delle autonomie locali, quello di prossimità e quello di area vasta, è ricomposto unitariamente in capo ai Sindaci, a cui è affidato non solo il governo dei Comuni e delle loro forme associative, ma anche il governo delle Città metropolitane (previste in Costituzione) e dei nuovi Enti di area vasta, che sono concepiti come enti di secondo livello strettamente legati ai Comuni del territorio, secondo la disciplina che sarà definita dalle leggi dello Stato e delle Regioni.

Nella storia italiana, la provincia è servita ad uniformare la pluralità di ordinamenti locali esistenti, attraverso il ruolo che i prefetti hanno svolto nel controllo delle amministrazioni locali. Anche dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, la continuità amministrativa ha prevalso ed è restata sempre fortissima la presenza dello Stato nel territorio.

La riforma del 2001, spostando le competenze legislative alle Regioni ed introducendo il principio di sussidiarietà nell’amministrazione, avrebbe dovuto avviare un processo di riordino di tutta la presenza pubblica nel territorio, per rafforzare le autonomie locali a partire dai Comuni e far “emancipare” la Provincia da sede dell’amministrazione periferica statale ad ente autonomo costitutivo della Repubblica.

Ciò non è avvenuto. Anzi, negli ultimi 15 anni, è aumentata la spesa statale e regionale mentre è rimasta ferma la spesa locale. Lo Stato e le Regioni, invece di concentrarsi sulle funzioni legislative, hanno ampliato le loro funzioni amministrative. In questo modo, non solo si sono moltiplicati i conflitti tra le istituzioni e le sovrapposizioni di strutture, ma si è inesorabilmente bloccato il processo di decentramento verso le autonomie locali.

Di conseguenza, l’albero dell’amministrazione pubblica è restato storto. La PA italiana si presenta ancora oggi come una piramide capovolta, con una grossa testa e radici fragili, in netta contraddizione con i principi di autonomia, sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, che pure sono scritti nella Costituzione.

La riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum in autunno affronta questo problema recuperando l’impianto unitario ed autonomista della Repubblica, per il quale i Comuni sono le fondamenta dell’amministrazione. Essa delinea una “forma di stato” più snella che supera, allo stesso tempo, l’ordinamento provinciale uniforme e la prospettiva federale.

E' una scelta che si colloca pienamente nel solco di quanto stabilito dall'articolo 5 della Costituzione: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Sulla base di questi presupposti, il legislatore statale e regionale sono obbligati a far ripartire il processo di decentramento e a valorizzare i Comuni come perno di tutto il governo locale, di prossimità e di area vasta, intorno al quale deve essere ricomposta la gran parte delle funzioni amministrative che si collocano a livello territoriale.

La conquista di una vera autonomia dipenderà, però, dalla capacità dei Comuni di assumere pienamente la responsabilità di tutto il governo locale, trovando le soluzioni più funzionali per gestire i servizi ai cittadini e ai territori, superando l'approccio “ente per ente” e dando vita a processi di collaborazione più stretta e di “amministrazione condivisa”.


Allo stesso tempo, è auspicabile che la discussione sulla riforma costituzionale già avviata in vista del referendum autunnale non si limiti allo scontro a priori tra i tifosi del Sì e i tifosi del No, ma approfondisca la conoscenza dei valori e delle disposizioni della Costituzione, per ricreare uno “spirito costituente” nel tessuto connettivo del Paese, rafforzare le radici profonde, inclusive e pluraliste della democrazia e ricostruire un rapporto di fiducia più saldo tra i cittadini e le istituzioni.