Premessa
La legislatura che
sta volgendo a termine ha riaperto in profondità il dibattito sulle Province,
che per 150 anni hanno rappresentato il livello di governo di area vasta su cui
si è costruito il rapporto tra l’amministrazione pubblica (statale) e il
territorio.
Con l’acuirsi
della recessione è ripreso in modo veemente il dibattito sull’abolizione delle
Province, sollecitato da molte forze politiche che avevano inserito questa
proposta nei loro programmi. L’Italia, infatti, deve fare fronte agli impegni
delle amministrazioni pubbliche con meno risorse a disposizione, poiché secondo
le
stime
economiche più accreditate, ritornerà al PIL del 2007 solo nel 2018-19.
Questa
situazione finanziaria ha spinto le istituzioni europee, come risulta dalla
lettera
della BCE al Governo italiano del 5 agosto 2011, a richiedere all’Italia di
ridurre la spesa pubblica.
Tra gli
interventi individuati come prioritari c’era l’abolizione o l’accorpamento
delle Province.
Un livello di
governo intermedio tra i Comuni e le Regioni è presente in tutti i grandi paesi
europei ma in Italia, a questo livello, ci sono troppe sovrapposizioni di
funzioni. Da un lato, ci sono le Province, come enti autonomi a diretta
legittimazione democratica previsti dalla Costituzione. Dall’altro, gli uffici
dell’amministrazione statale periferica e una molteplicità di strutture, enti,
società create dalla legislazione
regionale. Opinione comune a molti pertanto è che occorra definire un governo
più funzionale delle aree vaste, per rispondere in modo più appropriato alle
esigenze dei cittadini e dei territori.
L’intervento
della BCE è sembrato a molti osservatori irrituale, poiché fuoriusciva dagli
ambiti di intervento monetario e finanziario tipici di questa istituzione
europea ed appariva, anzi, in contrasto con i principi della
Carta
europea delle autonomie locali.
Una volta caduto
il Governo Berlusconi, questi impegni internazionali sono stati ereditati dal Governo Monti, che ha cercato di
attuarli con interventi d’urgenza che - a mio avviso - dovrebbero essere
esclusi quando si cercano di riformare gli assetti istituzionali e che alla
fine sono risultati approssimativi e contraddittori.
1. Svuotamento
e abolizione delle Province
Il primo
intervento è stato guidato dalle
dichiarazioni
programmatiche di Monti al Senato del 17 novembre 2011 nelle quali egli ha affermato
chiaramente: “
Il riordino delle
competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria. La prevista
specifica modifica della Costituzione potrà completare il processo,
consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi
con l’Europa.”
Questa scelta
programmatica è stata tradotta nelle disposizioni dell’
art.
23, commi 14 – 20 bis, del decreto legge cd. Salva Italia, che hanno
l’obiettivo di svuotare le Province delle loro funzioni per trasferirle a Regioni
e Comuni e di trasformarle in enti di secondo grado, nella prospettiva della
completa abolizione delle Province dalla Costituzione.
Questa scelta è
in netto contrasto con i principi costituzionali sulle autonomie locali (articoli
1 e 5) che impongono il carattere democratico delle istituzioni costitutive
della Repubblica e con le disposizioni costituzionali sulle Province (articoli
114, 117, 118, 119) che garantiscono ad esse funzioni fondamentali e funzioni
proprie, nonché l’autonomia nella gestione delle risorse necessarie per il loro
svolgimento. Non a caso, contro il provvedimento del Governo, molte Regioni
hanno fatto
ricorsi
alla Corte costituzionale, sui quali la Corte non si è ancora pronunciata,
poiché l’udienza del 6 novembre 2012 è stata rinviata.
Essa
presupporrebbe un più profondo disegno di riordino delle istituzioni locali, a
livello costituzionale, per il quale le Province diventano enti senza funzioni
proprie che svolgono in sussidiarietà le funzioni che i Comuni non possono
svolgere autonomamente. Per essere coerente, questa scelta dovrebbe portare al
completo superamento delle attuali forme di svolgimento associato delle
funzioni comunali e l’aumento del numero delle circoscrizioni provinciali secondo
il
modello
tedesco, in cui il complessivo assetto delle autonomie locali è rimesso ai
land.
Ma il
provvedimento è stato contrastato anche nel merito, poiché - durante la stessa
conversione del decreto in
Parlamento - è
stato sottolineato come da esso sarebbero derivati non risparmi, ma ulteriori
aggravi per la spesa pubblica. Nel confronto politico ed istituzionale è emersa
perciò una
proposta
più coerente di riordino istituzionale che, pur andando nella direzione
indicata dalla BCE, sarebbe più coerente con la Costituzione repubblicana e
potrebbe comportare maggiori risparmi di spesa pubblica.
2. Riordino delle Province
Nel 2012,
superata la fase di emergenza che ha portato al decreto legge 201/11, il
Governo Monti ha cominciato a definire una strategia di intervento di più lungo
respiro per avviare una
riduzione
strutturale della spesa pubblica in Italia con l’avvio della “Spending
Review”.
Nell’ambito
del dibattito sulla razionalizzazione della spesa pubblica, quando ha avviato
la discussione sulla spending review, il Governo aveva davanti due scenari:
- abolire le Province lungo la strada indicata dal
Decreto Salva Italia e articolare la PA a livello regionale passando da 100 a
20 uffici territoriali del governo;
- riordinare le Province attraverso opportuni
accorpamenti riducendo il numero degli uffici periferici del governo da 100 a (circa)
70.
Con il
decreto
legge sulla “spending review” si è scelta la seconda soluzione, più rispettosa
dell’assetto costituzionale e della storia del Paese, avviando un processo di
riordino delle istituzioni territoriali che passa per:
- l’individuazione delle loro funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, in attuazione della
riforma costituzionale del 2001;
- il riordino delle Province più piccole (articolo
17), l’istituzione delle Città metropolitane (articolo 18) e l’obbligatorietà
della gestione associata delle funzioni per i piccoli comuni (articolo 19);
- il contestuale riordino dell’amministrazione
statale periferica;
- il superamento degli enti strumentali di non
diretta derivazione democratica.
Il disegno
perseguito da queste disposizioni non è più quello dell’abolizione delle
Province come enti costitutivi della Repubblica, ma il ridisegno funzionale e
territoriale delle Province, per fare in modo che esse abbiano chiare funzioni
di governo di area vasta (che non si sovrappongono a quelle di altri livelli di
governo) e dimensioni adeguate per svolgerle (attraverso il contenimento dei
costi procapite per l’erogazione dei
servizi, come indicato già nella
ricerca
della Bocconi del dicembre 2011).
L’obiettivo complessivo
del decreto è “la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei
servizi ai cittadini” attraverso un profondo riordino istituzionale,
affinché l’Italia, alla fine della recessione, possa avere un amministrazione
più efficiente e leggera che sia in grado mantenere comunque un adeguato
livello di servizi essenziali e di rilanciare gli investimenti per far crescere
il Paese.
Perché questo
obiettivo sia raggiunto, tuttavia, occorre coinvolgere tutti i diversi livelli
istituzionali, andando a toccare gli sprechi e le rendite nascoste, a partire
dai tanti enti, società e strutture di secondo grado, che svolgono funzioni pubbliche
senza trasparenza e senza una diretta legittimazione democratica.
Purtroppo anche questo
disegno di riforma è stato perseguito con la decretazione d’urgenza, in modo
confuso e contraddittorio.
Da un lato si è previsto
il riordino delle Province che doveva avvenire a partire dalle proposte
avanzate dai territori. Dall’altro si sono decisi tagli lineari ai bilanci delle
Province (articolo 16) che ledono la loro autonomia finanziaria secondo una
tendenza di centralizzazione delle politiche pubbliche e, soprattutto, non sono
state superate e abrogate le disposizioni sulle Province del decreto “Salva
Italia”, che seguono un altro disegno istituzionale.
Al contrario, il
Governo ha presentato alla Camera dei Deputati il ddl per le elezioni di
secondo grado degli organi di governo delle Province in attuazione delle
disposizioni del decreto “salva Italia”, provvedimento il cui iter è stato
bloccato dalla Camera, perché in contraddizione con il processo di riordino
avviato con il decreto sulla “spending review”.
X. La
mancata riforma
Le
contraddizioni evidenziate nelle disposizioni sulle Province hanno portato ad
una complicazione del percorso di attuazione di questa riforma.
Il Governo, ha
avviato l’attuazione della spending review,
con la
delibera
del 20 luglio 2012, che ha definito i requisiti minimi per procedere
all’accorpamento delle Province e al ridisegno delle circoscrizioni provinciali
e metropolitane (350.000 abitanti e 2.500 chilometri quadrati).
Sulla base di
queste premesse, i Consigli regionali delle autonomie locali e la maggior parte
delle Regioni hanno avanzato al Governo proposte di riordino delle
circoscrizioni provinciali e metropolitane, in attuazione degli articolo 17 e
18 del decreto legge 95/12, in alcuni casi rispettose dei criteri stabiliti dal
Governo, in alcuni casi in deroga. Solo le Regioni Calabria e Lazio non hanno
inviato al Governo alcuna proposta di riordino.
Il Governo, sulla
base delle proposte intervenute, per concludere il processo di riordino delle
circoscrizioni ha emanato il
decreto
legge 188/12, con il quale ha provveduto a delimitare le circoscrizioni
delle province e delle città metropolitane, riducendo il numero delle province
nelle regioni a statuto ordinario da 86 a 51. Gli accorpamenti sono stati definiti
dal Governo derogando in parte i criteri stabiliti nella delibera del 20
luglio. Ma soprattutto, sono state previste nel decreto disposizioni che forzavano
i tempi del passaggio dalle vecchie province ai nuovi enti, dal punto di vista
degli organi di governo.
Di fronte alle
difficoltà registrate nella conversione del decreto, anche per il ripetuto
utilizzo della decretazione d’urgenza e le contraddizioni del provvedimento,
nel Parlamento si è formato un fronte trasversale contrario al completamento
del processo di riordino circoscrizioni provinciali che ha portato la
Commissione
affari costituzionali del Senato a ritenere impossibile l’approvazione del
provvedimento in tempo utile per la conversione in legge.
A questo punto,
il Parlamento ha preso atto della mancata conclusione del processo di riforma
delle Province e, nella
legge
di stabilità di fine anno, con una soluzione tampone, ha rinviato di un
anno sia il processo di attuazione dell’art. 23 del dl 201/11, sia il processo
di attuazione dell’art. 17 del dl 95/12, prevedendo il commissariamento delle
province che dovrebbero andare al voto e lasciando al nuovo Governo e al nuovo
Parlamento la decisione ultima sulla strada da intraprendere sul futuro delle
Province.
Conclusioni
La prossima
legislatura ha perciò tra i primi impegni quello del completamento della
riforma delle Province solo abbozzata ma non portata a compimento.
Formalmente sono
aperte 2 ipotesi:
- lo svuotamento delle funzioni delle Province in
attesa di una loro complessiva abolizione dalla Costituzione, secondo
quanto stabilito dai commi 14, 20bis, dell’art. 23 del decreto “Salva
Italia”;
- il riordino delle Province e l’istituzione delle Città metropolitane
in attuazione degli articoli 17 e 18 del decreto sulla “spending review”.
Al di là degli
aspetti di natura giuridica ed istituzionale, tuttavia, le forze politiche,
nelle loro proposte programmatiche, dovrebbero mirare a dare innanzitutto una
prospettiva di crescita all’economia italiana per uscire quanto prima dalla
recessione.
Lo
stravolgimento degli assetti istituzionali non risponde a questa primaria
esigenza. Occorre tener presente che già su queste ipotesi di riforma si dovrà
pronunciare la Corte costituzionale, sia relativamente ai ricorsi sull’art. 23
del decreto “Salva Italia”, sia relativamente ai ricorsi sull’art. 17 del
decreto sulla “spending review”, sia sugli eventuali ricorsi che potrebbero
arrivare sui tagli lineari ai bilanci delle Province operati nelle diverse
manovre e, da ultimo, nella legge di stabilità.
Occorre, al
contrario garantire una prospettiva coerente e stabile di sviluppo delle istituzioni
locali che è la premessa necessaria per una ripresa degli investimenti nei
territori che facilitino la ripresa dell’economia italiana.
A mio avviso la via
maestra per la riforma delle
istituzioni
provinciali deve partire dal ruolo che esse hanno avuto nella storia
unitaria del Paese e deve passare per una chiara individuazione delle funzioni
di area vasta da attribuire alle nuove Province (con organi, risorse e
dimensioni adeguate) o alle Città metropolitane, che in attuazione dell’art. 114
della Costituzione, devono diventare gli enti di area vasta per il governo
integrato delle aree metropolitane nel quale fondere la capacità e le
competenze dei Comuni capoluogo e delle Province.
L’attuazione dei
principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione nel dimensionamento
del governo di area vasta può essere il motore del riordino di tutta
l’amministrazione italiana nel quadro della forma di stato autonomista e
regionale oggi vigente, poiché può incentivare i processi virtuosi di
associazionismo comunale, portare ad una riforma dell’amministrazione statale periferica
e ad un profondo riordino delle strutture e degli enti che esercitano funzioni
che potrebbero essere allocate tranquillamente in ambito provinciale o
metropolitano.
La Riforma delle
Province può avvenire per via ordinaria,
attraverso una legge delega che individui un percorso di revisione delle
circoscrizioni provinciali e metropolitane con tempi certi, a partire da un
accordo tra tutti gli attori interessati da raggiungere in Conferenza unificata.
Questa riforma può
rappresentare il momento iniziale di un percorso più complessivo di riforme
costituzionali che precisi la ripartizione delle competenze legislative tra
Stato e Regioni, ridisegni la mappa delle circoscrizioni regionali che deriva
dall’elenco dell’art. 131 della Costituzione (superando le evidenti
incongruenze) e porti finalmente alla riforma del sistema parlamentare.