La riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum in autunno, modifica la seconda parte della Costituzione in modo strutturale, per adeguare l’assetto istituzionale italiano al mutato contesto europeo e mondiale, nel solco dell’ispirazione unitaria e autonomista originaria della Repubblica, che ieri ha compiuto 70 anni, con 400 Sindaci che hanno partecipato per la prima volta alla sfilata celebrativa dell’anniversario in rappresentanza degli 8000 Comuni italiani.
La
riforma del 2001 aveva scommesso su un assetto federale della
Repubblica, a partire dai processi di decentramento avviati negli
anni ’90, senza cambiare il sistema parlamentare fondato sul
bicameralismo perfetto. L’Italia si è così attardata a
suddividere il potere legislativo al suo interno quando, dopo
l’entrata in vigore dell’Euro, avrebbe dovuto impegnarsi per
unire politicamente l’Europa.
In
questo modo, si sono complicati i processi di formazione delle
decisioni pubbliche, è cresciuto a dismisura il ricorso alla
decretazione d’urgenza e ai voti di fiducia, sono aumentati i
conflitti tra i diversi livelli di Governo e, di conseguenza, è
rimasto inattuato il principio di sussidiarietà, che rappresentava
la principale innovazione costituzionale che avrebbe dovuto guidare
il processo di riordino di tutta la pubblica amministrazione.
Con
la recessione economica, a partire dal 2009, l’assetto (quasi)
federale della Repubblica è entrato in crisi e si è fatta strada
l’esigenza di una semplificazione del sistema istituzionale
italiano per ridurre la spesa pubblica e migliorare la funzionalità
delle istituzioni.
La
riforma approvata nel 2016 non risolve tutti i problemi, ma offre una
cornice stabile per consolidare le riforme avviate negli enti locali,
nella pubblica amministrazione e nel Paese, perché costruisce un
sistema istituzionale più equilibrato, nel quale i diversi livelli
di governo, invece di competere tra di loro, collaborano e si
integrano reciprocamente.
La
principale novità è senza dubbio il superamento del bicameralismo
perfetto e la trasformazione del Senato in una camera di
rappresentanza delle autonomie, secondo un modello largamente diffuso
negli altri paesi europei, in cui si prevede la partecipazione in
forma collaborativa delle istituzioni territoriali al circuito della
decisione parlamentare.
Il
Governo avrà la fiducia della sola Camera dei Deputati, eletta con
il nuovo sistema elettorale che risponde ad esigenze di
rappresentatività e, allo stesso tempo, garantisce una maggioranza
sicura per formare un Governo di legislatura che può portare avanti
il suo programma in Parlamento, fermo restando il ruolo del
Presidente della Repubblica e delle istituzioni di garanzia. Si
delinea una “forma di governo parlamentare” più forte, in grado
di decidere più velocemente e di incidere pertanto in modo efficace
anche sui processi di decisione in Europa.
Secondo
le indicazioni della Corte costituzionale, sono ricondotte in capo
allo Stato alcune materie legislative che la riforma del titolo V del
2001 aveva assegnato alle Regioni. Il CNEL è abolito. Il Senato
della Repubblica, composto da rappresentanti delle Regioni e dei
Comuni, diventa la principale sede di raccordo tra lo Stato, le
autonomie territoriali e le istituzioni europee, per condividere gli
indirizzi legislativi e prevenire i conflitti di competenze.
La
forma di stato è semplificata con il superamento delle Province come
elementi costitutivi della Repubblica. Da 4 livelli di governo che
non si integrano e sono spesso in conflitto (Comuni, Province/Città
metropolitane, Regioni, Stato) si passa a 3 livelli di governo
(Comuni/Città metropolitane, Regioni, Stato) che devono cooperare
tra di loro.
Tutto
il Governo politico delle autonomie locali, quello di prossimità e
quello di area vasta, è ricomposto unitariamente in capo ai Sindaci,
a cui è affidato non solo il governo dei Comuni e delle loro forme
associative, ma anche il governo delle Città metropolitane (previste
in Costituzione) e dei nuovi Enti di area vasta, che sono concepiti
come enti di secondo livello strettamente legati ai Comuni del
territorio, secondo la disciplina che sarà definita dalle leggi
dello Stato e delle Regioni.
Nella
storia italiana, la provincia è servita ad uniformare la pluralità
di ordinamenti locali esistenti, attraverso il ruolo che i prefetti
hanno svolto nel controllo delle amministrazioni locali. Anche dopo
l’approvazione della Costituzione repubblicana, la continuità
amministrativa ha prevalso ed è restata sempre fortissima la
presenza dello Stato nel territorio.
La
riforma del 2001, spostando le competenze legislative alle Regioni ed
introducendo il principio di sussidiarietà nell’amministrazione,
avrebbe dovuto avviare un processo di riordino di tutta la presenza
pubblica nel territorio, per rafforzare le autonomie locali a partire
dai Comuni e far “emancipare” la Provincia da sede
dell’amministrazione periferica statale ad ente autonomo
costitutivo della Repubblica.
Ciò
non è avvenuto. Anzi, negli ultimi 15 anni, è aumentata la spesa
statale e regionale mentre è rimasta ferma la spesa locale. Lo Stato
e le Regioni, invece di concentrarsi sulle funzioni legislative,
hanno ampliato le loro funzioni amministrative. In questo modo, non
solo si sono moltiplicati i conflitti tra le istituzioni e le
sovrapposizioni di strutture, ma si è inesorabilmente bloccato il
processo di decentramento verso le autonomie locali.
Di
conseguenza, l’albero dell’amministrazione pubblica è restato
storto. La PA italiana si presenta ancora oggi come una piramide
capovolta, con una grossa testa e radici fragili, in netta
contraddizione con i principi di autonomia, sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza, che pure sono
scritti nella Costituzione.
La
riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum in autunno
affronta questo problema recuperando l’impianto unitario ed
autonomista della Repubblica, per il quale i Comuni sono le
fondamenta dell’amministrazione. Essa delinea una “forma di
stato” più snella che supera, allo stesso tempo, l’ordinamento
provinciale uniforme e la prospettiva federale.
E'
una scelta che si colloca pienamente nel solco di quanto stabilito
dall'articolo 5 della Costituzione: “La
Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie
locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio
decentramento amministrativo; adegua i principî ed i metodi della
sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Sulla
base di questi presupposti, il legislatore statale e regionale sono
obbligati a far ripartire il processo di decentramento e a
valorizzare i Comuni come perno di tutto il governo locale, di
prossimità e di area vasta, intorno al quale deve essere ricomposta
la gran parte delle funzioni amministrative che si collocano a
livello territoriale.
La
conquista di una vera autonomia dipenderà, però, dalla capacità
dei Comuni di assumere pienamente la responsabilità di tutto il
governo locale, trovando le soluzioni più funzionali per gestire i
servizi ai cittadini e ai territori, superando l'approccio “ente
per ente” e dando vita a processi di collaborazione più stretta e
di “amministrazione condivisa”.
Allo
stesso tempo, è auspicabile che la discussione sulla riforma
costituzionale già avviata in vista del referendum autunnale non si
limiti allo scontro a priori tra i tifosi del Sì e i tifosi del No,
ma approfondisca la conoscenza dei valori e delle disposizioni della
Costituzione, per ricreare
uno
“spirito costituente” nel tessuto connettivo del Paese,
rafforzare le radici profonde, inclusive e pluraliste della
democrazia e ricostruire un rapporto di fiducia più saldo tra i
cittadini e le istituzioni.
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